L'angelo di fuoco tiepido

Un angelo, maldestro viaggiatore,
Tentato dall'amore del difforme,
Entro la rete di un incubo enorme
Si va agitando come un nuotatore.
(Charles Baudelaire)

Il loro aspetto assomigliava alla brace e al fuoco.
(Ezechiele I, 13)

 

La pioggia sul mio impermeabile, come tanti aghi di pino. Gorgoglìo di un torbido sciacquone che cola dalle nuvole, in realta è fluido corporeo. La sigaretta zuppa che domina le mie labbra screpolate. Le mani in via di putrefazione sospingono l'ampio portone; sopra la mia testa, una croce rossa cerchiata. Odore di acqua e di morte.
"Non è orario delle visite." Un fantasma in camice bianco si limita a dire questo, guardandomi senza attenzione.
"Vengo per Mary." Le rispondo, ponendo l'accento su quel nome. Ecco la sua espressione che cambia.
"E' la ragazza che…"
"Sì." Mi tolgo il capello, tentando di aggiustarmi i capelli con le mani. Dovrei pettinarmi l'anima, pensai.
"E'… nella stanza 309."
"Questo lo so." La mia occhiata basta per ridurla al silenzio. Mentre giro lentamente le spalle, come se dovessi sopportare su di me il peso del mondo, afferro l'ultimo frammento di parola:
"… spiace."
"Non si dispiaccia. Non ne vale la pena."
Percorrevo il corridoio lercio e stretto, ma sapevo di non essere lì; i veri passi erano nella mente. Li respinsi nel pozzo dei ricordi, perché facevano troppo male. Poi quelle tre cifre, e la porta. Scorgevo appena la sagoma sul letto, in posizione innaturale; il mio cervello riprese a rotolarsi nel fango. Mi appoggiai allo stipite: allora non ne potevo fare a meno. Come un cancro, così il cerchio della memoria rinchiuse la mia testa: nessuna via d'uscita.

 

Salii attentamente le scale, inghiottito dal respiro del buio. Mi fermai sul pianerottolo, esaminando ogni angolo oscuro: il contatto metallico con la pistola nella fondina mi infondeva sicurezza. Fu in quel momento che si aprì una porta, accompagnata da uno spettrale scricchiolìo.
"E' lei l'ispettore Abberline?" Così un uomo sulla cinquantina, la pancia particolarmente pronunciata coperta parzialmente dalla canotteria ed un paio di jeans logori, sgualciti.
"Purtroppo questo è il mio nome." Risposi, a casaccio.
"Bene." sembrava sollevato "Io sono Mr. Hammer. La segnalazione è opera mia: rumori molesti. Da quell'appartamento laggiù, ispettore. Tutto il giorno e tutta la notte. Lui è impiegato di banca, mi sembra. Ma quel cane. Cristo santo! Quel cane non sta zitto un minuto! Dopo averlo detto con le buone…"
Gli feci cenno di fermarsi con la mano: per ora il vero criminale era il suo alito, e sentivo che non l'avrei sopportato ancora per molto.
"Stai messo molto male, amico. Sparati in bocca, oppure apri la finestra e salta giù: non credo che la società piangerà la tua scomparsa. Ma prima lavati i denti: ammazzerai il medico legale, in quello stato."
Questo era quello che avrei voluto dire. Ma la circostanza ti impone un certo comportamento. Quindi me ne uscii in questo modo:
"La ringrazio, signore. Vedrò quello che posso fare. Se tutti i cittadini fossero precisi e puntuali come lei…"
Non ebbi il coraggio di concludere la frase. Lui mi osservava, le mani sul pancione, profondamente soddisfatto. Mossi altri piccoli passi sul pianerottolo, e già cominciavo a sentirlo: probabilmente adesso era nella fase meno acuta.
"Che cazzo di muggito, eh?" bofonchiò Mr. Hammer.
"Lei non si preoccupi." Lo rassicurai. Ormai ero davanti alla porta; bussai pesantemente. Da quando avevo fatto visita ad un pazzo che giocava col gas avevo smesso di usare il campanello, per precauzione. Ma nessuna risposta. Fu allora che strillai la mia frase preferita:
"Aprite! Polizia!"

 

La stanza d'ospedale giaceva nella semioscurità; alzai leggermente le tapparelle, quel che bastava per guardarla in faccia. Ma non feci in tempo a girarmi.
"Hai ricordato abbastanza?" chiese, cogliendomi di sorpresa.
"Può bastare, Mary. Lo ricordo ogni volta: appena vedo questa stanza, appena ti vedo. Quella maledetta scena."
Adesso lei si era faticosamente alzata a sedere, la schiena magrissima appoggiata sul bordo del letto. I capelli scuri le ricadevano fino alle guance, come per accarezzare i suoi lineamenti delicati; ma soprattutto gli occhi, due fari neri puntati sulla mia persona. Occhiata di profondo, sofferente rimprovero.
"Ispettore, non devi venire mai più qui."
"Perché?" la guardai. Nonostante il suo fisico così magro, mi piaceva. Mi era sempre piaciuta.
"Lasciami morire in pace."
Quella frase. La ricordavo, ma non avrei voluto; invocava la visione peggiore della mia esistenza. Una porta chiusa davanti a me. Aprite. Polizia. Dopo quel momento, quante volte ho desiderato che fosse andata diversamente: ma alla fine mi aprirono.

 

"Qualche problema?" Una voce maschile che sembrava rilassata, disponibile.
"Controllo di routine. Sembra che ci siano strani rumori, da queste parti." Usai il tono più naturale possibile.
"Allora prego."
La porta si aprì lentamente, svelando un individuo ben vestito. I capelli scuri erano dominati da una riga a destra, mentre camicia a scacchi e pantaloni di velluto componevano una figura anonima, ordinaria. Mi accomodai in un salone, spazioso ma angusto allo stesso tempo. Sentivo che qualcosa non andava.
"Posso vedere il suo cane?"
"Non ha mai visto un cane, ispettore?" mi sorrideva, sembrando cordiale. Ma all'improvviso lo notai: una macchiolina di sangue, sotto il lobo dell'orecchio destro. E poi quel muggito, angosciante e sommesso. Avvicinai la mano alla pistola.
"Una rapida occhiata, se non le dispiace."
"Ma certo. E' un bell'esemplare: le piacerà." Indicò una stanza alle mie spalle. Mi rilassai: probabilmente si era spremuto un brufolo, non c'era motivo di preoccuparsi. Mi alzai, senza scacciare quella sottile inquietudine. Vago mugolio. Non sembrava un animale. Neanche il corridoio sembrava la strada per l'inferno: ma te la trovi davanti e non la riconosci, abituato al solito nulla quotidiano.

 

"Perché non hai mai reagito? Non hai tentato di scappare?"
Chiesi, guardando quella bambola sciancata.
Poche parole, bisbigliate da un paio di labbra mutilate:
"Perché non potevo. Perché il mio compito è un altro."
"Ma che cazzo vuol dire?" avevo perso il controllo "Ti ha tenuta per mesi come un cane. Quando ti ho vista eri nuda, strisciavi per terra e mugolavi. Quel collare d'acciaio per poco non ti ha strangolata. E mangiavi da una cazzo di ciotola! Io sono giorni che mi chiedo perché…"
"Ma te l'ho già spiegato, ispettore. E adesso vattene, che sono stanca."
La guardai dritto negli occhi: avevo capito che quella era l'ultima volta.
"Non ci credo che sei un angelo. Gli angeli non esistono."
Allungò una mano verso di me, come per farmi avvicinare a lei; mossi qualche passo verso il letto, e quella creatura mi stampò un bacio sulle labbra.
"Quando esci da qui… guarda in alto. E stai attento."
Non mi sono più girato mentre lasciavo la stanza; lo ricordo ancora come lo sforzo più grande della mia vita.

 

"Sono Jim Morrison, cazzo! Sono il Re Lucertola!"
"Ghghghghgh…"
Nel lungo corridoio sentivo altri rumori da altre stanze, gabbie in un girone infernale. I ragazzi difficili componevano brandelli di follia, o forse di verità. Incrociai ancora l'infermiera, avevo qualcosa da chiedere:
"Le volevo dire… quelle ferite… sulla schiena di Mary."
Mi regalò uno sguardo strano, come se l'avessi colta di sorpresa. Poi assunse di nuovo la sua solita espressione, smorfia tristemente addolorata.
"Il dottore ha detto che sono stranamente parallele" mi informò "ma oltre a questo sono due normali ferite, particolarmente profonde. E' stato lui, faceva parte della sua tortura."
"Ma non c'è alcuna possibilità che…" non dovevo finire la frase, perché sentivo che aveva capito. Se l'era chiesto anche lei.
"No, ispettore. Non sono le cicatrici di un paio di ali. E poi gli angeli…"
"Non esistono, lo so. Arrivederci."
La pioggia non voleva saperne di smettere. Il cielo era un animale torvo che vomitava amarezza. Non avevo mai avuto un ombrello. Lasciai la croce rossa cerchiata alle mie spalle, poi ricordai un particolare. Fermo. Sguardo verso l'alto; per alcuni secondi pugnalate d'acqua nelle pupille. Poi lo vidi.
Non ho mai avuto una gran prontezza di riflessi, ma in quel momento feci appena in tempo a spostarmi. Il frammento di cornicione aveva sfiorato la mia testa, finendo per suicidarsi sul selciato.
"Mio Dio, ispettore!" il fantasma in bianco correva fuori, a braccia spalancate "L'ha mancata per un pelo! Quante volte ho detto di aggiustare quel dannato…"
Non la stavo ascoltando. Osservavo quella vendetta di cemento, e mi sembrava ancora troppo materiale e terrena.
Quando esci da qui… guarda in alto. E stai attento.
Non sentivo neanche più il pianto del cielo, incapace di muovermi. La mia bocca era uno squarcio trasparente. Spuntavano lacrime sulle mie guance, si mescolavano con la pioggia e seguivano il loro corso - schegge di ambra dal vetro rotto dell'anima - giù verso il basso, nel buio imperfetto della sera.

Emanuele Di Nicola