Un bel giorno per morire

Racconto per il concorso "300 Parole Per Un Incubo", 2003 - edizione 2

Torino si adagiava dolcemente sotto ai suoi piedi, così bella con tutti quei colori pastello e così magica con quella Mole che pretendeva di mediare le esigenze del cielo con le ambizioni dei piccoli umani.
In quel bar all’aperto in collina poteva godere di uno scorcio di panorama magnifico: mai la città gli era parsa così interessante, ricca, stupenda e variegata nelle sue infinite contraddizioni. Aleggiava un'atmosfera fantastica, surreale. Assaporò con gusto la sua sigaretta, come se fosse l’ultima. Si ritrovò a percepire oceani di felicità di cui non sospettava nemmeno l’esistenza.
Era un giornalista famoso, lottava contro il male come uno di quegli eroi dei cartoni animati giapponesi che si scagliavano contro le mostruosità perpretate dai presunti cattivi, aveva una famiglia da sogno, godeva di ottima salute e il suo conto in banca era inattaccabile. Si sentiva felicemente realizzato, soprattutto sorseggiando quella visione paesaggistica che riempiva di bellezza il creato.

Stava vivendo sospeso nell'eternità.
Improvvisamente però si rese conto di non essere reale.
L’essere era comparso dal nulla. Era alto come un atleta di pallavolo, aveva dei lineamenti da duro temprati dall’eco di mille battaglie e aveva uno sguardo freddo e determinato, tipico di chi sapeva di dover raggiungere nella vita un unico scopo. La mano destra dell’uomo era serrata dentro la tasca di una giacca di jeans sgualcita. L’entità si sedette al suo tavolo e disse soltanto due parole, chiare e indelebili: “Treblinka 1942”.
La visione idilliaca della città lasciò il posto a pareti di cemento, uomini nudi dalle carcasse scarnificate e forni crematori innalzati per la purificazione. L’uomo sparò. Era giusto così, le parti si erano invertite e il carnefice di allora adesso era diventata la vittima. “Buffo”, pensò per l’ultima volta, “in quest’ultima vita non aveva mai creduto nella reincarnazione”.

Enrico Faraoni