La sera esco

La sera esco.
Quando il sole inizia a calare, mi piace andare sul ballatoio, che gira tutt'attorno l'edificio, e ammirare il paesaggio. In effetti scelsi questa posizione per costruirvi, sapendola panoramica. Da ragazzo ci venivo spesso, arampicandomi sul dosso roccioso sopra la volta della galleria. Mi soffermavo fra le rocce affioranti, coperte di muschio, l'erba ed i cespugli e le poche conifere, ad ammirare il lago.

 

Amavo, come adesso, l'ora del tramonto: quando l'acqua diventa color ambra, le montagne delle masse scure stagliate contro il cielo rosato, ed i cipressi lungo la via, svettanti da un parco privato posto più a valle, si stagliano ieratici e neri sullo sfondo dello specchio liquido.

 

La riva del lago è scoscesa, e quindi da ogni punto si gode di un discreto panorama, ma qui, lungo la mulattiera che conduce al santuario, qui decisi che era il posto migliore. Da qui si vedeva quasi tutto il paese: i tetti, perlomeno, e le case al di qua della curva. E, nello stesso tempo, il lago ed i monti sullo sfondo. Una sintesi perfetta di tutta la nostra vita: le nostre case, il nostro mondo, avvolti in un simbolico abbraccio visivo. E' per questo che qui fu eretta la chiesa, e con lei il cimitero: come a chiudere un cerchio perfetto. Sotto, le case, la riva del lago, le barche, l'oleificio. Più in là, il nostro orizzonte, per moltissimi fra noi l'unico che avrebbero mai visto da vivi. E sopra, la Chiesa, simbolo della fede e della coscienza collettiva, ed il cimitero, dimora dei morti e ricettacolo di memorie.

 

Il paese dei vivi e quello dei morti, il tutto in poche centinaia di metri. Quasi senza soluzione di continuità, dato che il camposanto è praticamente adiacente ai giardini delle ultime ville, separato da esse solo dalla strettissima mulattiera chiusa fra i muri di cinta. Qua, sui campanelli, là, sulle lapidi, gli stessi nomi e cognomi. Nonni, padri figli e nipoti sono sempre assieme, anche dopo il doloroso gesto delle esequie. Siamo sempre noi, del paese, che abitiamo questa terra: da vivi e da morti. Potete girare tutte le tombe, e troverete non pù di una mezza dozzina di cognomi, che variamente assortiti accompagnano stinte fotografie in bianco e nero di compite matrone e di baffuti capostipiti.

 

Siamo in pochi: un pugno di case, e tutt'attorno la montagna e sotto il Lago. Perciò, anche al cimitero di posto ce n'è sempre: salvo il campetto decennale, le vecchie tombe a parete e le cappelle, o anche quelle familiari in terra non vengono mai toccate, anche se in disuso da decenni. Sprofondano, diventano illeggibili nelle epigrafi.... e con questo lento degrado diventano autentici testimoni sia della morte che della persistenza della memoria: sì, perchè qualcuno che ci mette dei fiori c'è sempre. Solo un paio sono proprio abbandonate. Le cappelle soffocano sotto i rampicanti, i tetti vanno alla malora, ma ad onta di cancelli arrugginiti e pareti scrostate c'è sempre un lumino rosso a ricordare chi riposa là dentro, anche se i nomi non si decifrano quasi più. Sembra che l'inchiostro nero deposto nelle scalfitture dello scalpello, la stessa superficie lapidea che preserva questi segni, abbiano la stessa scadenza dei ricordi dei vivi: ci si rammenta di nonni e magari di mitici bisnonni, e di essi i nomi sono ancora quasi chiari... si ha solo un vago ricordo, retaggio di vecchi aneddoti sentiti da piccoli dalla bocca dei più anziani, di avi e bisavoli, le cui foto sono ormai scolorite e di cui a malapena si leggono gli epitaffi. Più indietro, e resta solo una consunta lastra di marmo elegantemente sagomata, spesso murata sulla parete esterna della cappella o sul muro di cinta del camposanto. Sono i morti più antichi, che spesso nemmeno avevano una sepoltura privata (si seppelliva in fossa comune, allora).

 

Di costoro, forse resta una vaga rimembranza magari in qualche archivio comunale, o negli alberi genealogici che molti espongono, elegantemente incorniciati, nel salotto delle vecchie case confortevolmente rimodernate.

Ma chi non cura almeno i monumenti degli antenati, non dico le loro spoglie mortali, è anche chi nemmeno si cura di rammentarne il nome.

 

E' sempre stata questa la mia paura. E' vero, siamo un paese che ricorda, ma come ho detto anche il ricordo, tranne che per un certo numero di fortunate famiglie che hanno il culto di se stesse, dura la memoria di un uomo. I giovani di questa strana epoca, poi, volgono sprezzantemente le spalle al passato, addirittura si vegognano di far sapere che vengono dalle Valli o dal Lago. Come quelli dei Passi, che calati in Città o al Capoluogo si sono sempre sentiti in dovere di "integrarsi", e parere più cittadini degli altri. E fra l'altro, sono dei loro parenti le tombe più dimenticate, più ignote, quelle che ormai sono sì e no un riquadro a malapena indovinabile fra i vialetti del Campo Vecchio. Loro quei plotoni di volti ormai senza nome che ti fissano quasi imploranti, o a volte quasi minacciosi, dalle lapidi più consunte. Famiglie intere, dimenticate, morte due volte a causa dell'oblio.

 

Penso che se covassero sentimenti di vendetta contro i vivi, non sarebbero da condannarsi.

 

Ai miei tempi d'oro non si facevano troppe storie su dove o cosa costruire: è pur vero che di verde ce n'era, e tanto, dacchè poco ci si curava di preservarlo.... un pò come uno spendaccione si cura poco del molto danaro che ritiene di avere fino a quando si ritrova sul lastrico. Così, quando divenni un personaggio importante in Città, non mi dimenticai del mio paese e ci ritornai, per costruire il segno tangibile della mia appartenenza ad esso. Ah, sì... c'era la mia casa natale, ma non era "mia": i miei lavoravano all'Oleificio, e pagavano la pigione al ricco Scanarotti. Avrei potuto proporgli di comprare quell'abituro, ma ormai anche i miei vecchi se n'erano andati, e lì c'era un'altra coppia. E Scanarotti possedeva una delle più belle cappelle funerarie del paese, anzi della costiera intera: è dietro la chiesetta, sul sito (spero almeno non proprio "sopra") della fossa comune sette-ottocentesca, usata fino a poco dopo l'Unità. Un piccolo Pantheon, sempre illuminato da un bel lume rossastro. Ci riposano generazioni di Scanarotti, anche quelli che prima stavano sotto il pavimento della chiesa parrocchiale. Gli Scanarotti ci tengono: sono avvocati da un secolo e mezzo, e prima erano "giuresconsulti" sotto i cessati governi preunitari. Erano nel Senato della Pieve già nel Cinquecento, possidenti terrieri ed i primi ad impiantare un'impresa (l'Oleificio) qui su queste sponde.

 

Come essere da meno? Come sbattere in viso a questi altezzosi patrizi il mio riscatto? Facendo come loro, è ovvio. Erigendo la mia casa da vivo... e la mia dimora da morto. Così come loro avevano Villa Ena e la Cappella (ah... dimenticavo, decorata da Vicenzo Vela), io costruii Villa Maria e quello che doveva restare, come imperituro monolite, il monumento alla mia memoria.

 

Perchè le case cambiano di proprietario, figli avidi o malaccorti le svendono per raggranellare soldi di cui non necessitano o pagare debiti che potevano evitare, nuove leggi assurde impongono di dividere i beni fra gli eredi invece di preservarli intatti nelle mani di un unico meritevole. Le case possono venir demolite per far posto a delle nuove, o a questi assurdi parcheggi tanto di moda oggi, o ad alberghi, come in altre località lacustri.

 

Le case passano, le tombe restano. Infatti se Villa Ena è ancora degli Scanarotti, Villa Maria è di un politico romano che ama il Lago.

 

Ma la Tomba è ancora mia. Ebbi dalla Curia il terreno ai bordi della strada per il Santuario, in cambio del restauro della stessa, lungo la quale feci piantare i cipressi, che adesso sovrastano quelli dei parchi privati a valle. Ed eressi un imponente mausoleo, un blocco di marmo e granito, grigio e rosso, possente ma nello stesso tempo elegante con la sua sottile piramide sommitale sormontata dalla Croce. Un monumento squadrato, con due sole aperture chiuse da cancellate in bronzo e spessi cristalli al piombo. Due sale sepolcrali, sovrapposte: quella inferiore, per la mia famiglia, quella superiore, per me e la mia consorte.
Una doppia balconata, sul davanti collegata dalle scale che partono fin da sotto il basamento che eleva la prima sala a due metri dal suolo e racchiude altri loculi e ossari: noi non dovevamo andare dispersi. Mi riproposi di consegnare me stesso e tutti i miei amati alla memoria collettiva del paese che amavo: benchè essendo noi poveri, dei miei antenati non riuscii a rintracciare le spoglie, disperse nell'ossario comune. Raccolsi le salme dei miei genitori e le ospitai nel grande sarcofago in pietra rossa a loro dedicato.

 

Le tombe restano, e sfidano il tempo. Se passate dalla vecchia strada, quella che adesso è così bella percorrere perchè evitata dal traffico frettoloso che preferisce fare quella dei trafori, arriverete al termine del paese e l'incontrerete, dopo una curva che aggira una rupe selvaggia. Sorge su di un'altra più bassa ma più ampia rupe, forata dalla galleria, sul culmine della quale è il nostro piccolo ma rinomato Santuario, ed accanto ad esso il cimitero, sormontato dall'obelisco dei Caduti. E vi domanderete cos'è quella piramide sostenuta da tre possenti gradoni di marmo e granito: un monumento? Una cappella?

 

No, una tomba, vi diranno se chiedete. E vi diranno anche di chi. Con uno sguardo inquieto rivolto ad essa...

 

La sera esco. Aspetto che faccia buio. Vedo le luci accendersi, sento le auto dei pendolari che tornano, li vedo parcheggiarle lungo il parapetto in ferro sotto il quale precipita nel lago la costiera rocciosa. Non ho bisogno più di respirare, ma assaporo quest'aria dolce che laggiù, in Città, mi mancava, sotto le fumiganti ciminiere della GOM. Quest'aria alla quale non potevo rinunciare per quella fredda del sepolcro.

 

La sera esco. Non mi è bastata la memoria di pietra. Ho avuto paura di morire davvero, forse non ho avuto fiducia. Non ho creduto, e sono dannato. Almeno credo, ma non è poi male questa dannazione. Non sono morto, e non sono vivo. Sono qui, relegato nella mia spoglia mortale, che per attaccamento a questo mondo di cose e di valori materiali non ho saputo abbandonare.

 

La sera esco, e so che mi vedete. Faccio di tutto per celarmi, ma so che sapete. So che venite da giovani a sfidarmi, col volto pallido dal terrore ma decisi a scoprire l'ignoto. E ogni tanto qualcuno di voi l'ho spaventato davvero, mostrandomi di sfuggita ma abbastanza da contorcere i suoi lineamenti in uno spasimo di orrore senza nome. Non tanti, qualcuno in poco meno di un secolo, abbastanza da creare la leggenda ma non da dare una certezza, certezza alla quale so che non vorreste mai credere... o forse sì? Invidiereste mai questa non-vita, voi che vi lamentate di quella vera?

 

La sera esco, ma non voglio farvi del male. Ho chiesto di essere ricordato, ma non così. Volevo additassero la mia ultima dimora, non tremando dalla paura, ma celebrando la mia memoria. Invece, se chiedete cos'è quell'edificio strano, cambieranno tono e vi diranno di "starci alla larga", che "è pericoloso".

 

La sera esco perchè sono qui da solo, circondato dal nulla, fra gelide pareti, così gelide che non avete idea. Eccetto i miei vecchi, nessuno dorme qui con me: nemmeno mia moglie, che i miei figli vollero tumulare laggiù in città nella nuova cappella e non qui, in "quel posto orribile"... e poi così "lontano", "scomodo". I miei figli, che hanno svenduto casa e memoria. I miei figli, che meno ossessionati di me dalla memoria ora sono forse in pace, o forse dinanzi al Giudizio.

 

La sera esco, e vi abbraccio con lo sguardo. Non dovete aver paura di me. Ho voluto essere con voi, e sono stato accontentato.

Leonardo Zarrelli