Rosso Natale

Eravamo tutti lì, nel salone addobbato per la festa. I canti natalizi infondevano gaiezza nei cuori, mentre il camino acceso rendeva l’atmosfera calda e accogliente, a dispetto della candida neve che all’esterno cadeva soffice e vaporosa. Ci divertivamo, coi sorrisi sulle labbra e una luce di autentica felicità che brillava negli occhi di ognuno: era un Natale perfetto, come quelli che si vedono nei film.
Quando udimmo un forte rumore provenire dal tetto, qualcuno scherzò dicendo che le renne dovevano essere atterrate male. Una risata generale, e poi di nuovo quel tonfo. Il buonumore venne smorzato per qualche secondo. Davide, il padrone di casa, decise di uscire a controllare: forse una delle decorazioni si era staccata dalla grondaia e il vento la faceva sbattere. Nulla di grave, comunque. Continuammo a festeggiare, come lui stesso ci aveva raccomandato. Sua moglie Lucia propose un brindisi, “al coraggio dell’uomo che sfida il gelo per noi”, disse, ironica e allegra.
I bicchieri vennero svuotati in fretta, riempiti e nuovamente svuotati, svariate volte. Ma Davide ancora non era rientrato. Un’angosciante immobilità piombò bruscamente nella stanza, sguardi inquieti cominciarono a dirigersi verso le finestre in cerca di una risposta. Qualcosa non andava, a quel punto era chiaro. Che Davide fosse scivolato sul ghiaccio e avesse battuto la testa? Un paio di amici si offrirono di andare a cercarlo.

Dopo un tempo che parve infinito, avvertimmo un flebile picchiettio che, in breve, si fece più intenso e fragoroso, come se qualcuno stesse bussando insistentemente, freneticamente alla porta. Esitante, Lucia andò ad aprire, le mani che tremavano e gli occhi sbarrati. E capimmo troppo tardi che ciò che avevamo sentito non era un bussare, ma un martellare. Davanti a Lucia c’era Davide, inchiodato alla porta, con il volto tumefatto e, in ogni parte del corpo, raccapriccianti ferite da cui stillava, goccia dopo goccia, il poco sangue che ancora gli rimaneva. Rivolse un lacrimoso sguardo a sua moglie e tentò di parlarle per l’ultima volta, ma non poté: la lingua gli era stata strappata via, insieme a un dito della mano sinistra, quello dove portava la fede. L’urlo di Lucia riempì il silenzio per interminabili istanti e, intanto, la sua dolce metà spirava a pochi centimetri da lei.
Oltre la soglia, sullo sfondo di quell’insensata scena di morte, si ergeva serafico l’abete adornato da palline e nastri dorati, e nell’intermittenza delle luci colorate scoprimmo due nuovi, macabri ornamenti. I corpi di Enzo e Giorgio, usciti alla ricerca del loro amico, penzolavano da un ramo scossi da prepotenti spasmi.
E mentre fissavamo increduli e atterriti quell’osceno spettacolo, comparve alla nostra vista colui che ne era responsabile: indossava un vestito da Babbo Natale, ma non portava doni.
Alcuni scapparono, senza nemmeno sapere dove rifugiarsi, o se un riparo sarebbe davvero servito a evitare l’orrore che si stava compiendo quella notte.
Ma tutti vennero trovati, e torturati in modi fantasiosi, trucidati come bestie al macello.
Rimasi a guardare, immobile, inalando gravemente l’odore del sangue che impregnava ogni cosa. La musica, ormai sovrastata da urla disperate, non aveva smesso di suonare.
Quando la confusione cessò lui venne verso di me. Era finita.
“Veniamo a noi”, mi disse.
“Bene”, risposi, “ecco i tuoi soldi. Ora colpiscimi: quando arriverà la polizia dovrò fingermi una vittima”.
Uno scoppio, lo schianto, e un dolore lacerante mi pervase.
Nel camino era rimasta soltanto la cenere, attorno a me sangue e cadaveri.
“Finalmente”, pensai, prima di perdere i sensi vinta dalla debolezza, “avrò io il controllo”.
Il giorno seguente mi trovavo all’ospedale quando un’edizione straordinaria del notiziario raccontò l’episodio di scellerata furia che aveva coinvolto gli azionisti di un noto gruppo immobiliare, riuniti per la festa natalizia aziendale. “Ma fortunatamente”, disse compassato il giornalista, “una persona è sopravvissuta. Un vero e proprio miracolo di Natale”.
Già. Grazie, Babbo.

Fiorella Frau