Il divoratore di ossa

Le notti primaverili hanno un fascino magico che pare rendere possibili anche le storie più incredibili... e questa è una di esse; anche se al posto di fate e folletti danzanti nel cielo, troverete zanne, artigli e sangue.
Quella notte una luna argentea simile ad un teschio sbiancato, fissava il mondo diffondendo la sua tenue e soffusa luminosità. Un alito di vento fresco smuoveva sottili fili d’erba in campi assopiti che all’indomani sarebbero grondanti di una limpida rugiada. La civetta nell’ombra emetteva il suo lugubre richiamo sapendo che quella notte qualcuno avrebbe risposto.
Da sempre, da quando mi ricordi, le panchine intorno alla piccola cappella, dispersa tra campi e boschi, erano frequentate dai ragazzi della zona. Molti di essi si recavano in compagnia per “riflettere”, fumandosi saporiti spinelli appena acquistati in loco. A ore più tarde sarebbero poi sopraggiunte le coppiette in macchina che facevano di quei campi solitari un ottimo posto per riempire i loro fazzoletti d’amore. A loro (giovani e meno giovani) non interessava la quiete della notte, la poesia che portava con sè e nemmeno la sacralità di quella vecchia cappella... cercavano solo un sito fuori mano dove appartarsi e fare i loro porci comodi.
Una stretta stradina sterrata si contorceva tra i campi fino ad arrivare allo slargo in cui c’erano quattro panche di legno ormai logore e marce, sulle cui sponde si potevano leggere messaggi di ogni sorta scavati dagli assidui visitatori del luogo. Intorno ad esse si ergevano immobili sei pioppi cipressini che contornavano la piccola radura. Di fronte si elevava la cappella detta la Madonna delle ossa, una piccola costruzione dai muri diroccati e ricoperti di rampicanti morti, con una veranda spiovente che ne ricopriva l’entrata. Sul tetto a punta, di mattoni coperti dal muschio, cresceva anche qualche arbusto spelacchiato che ispirava un senso di forte abbandono.

La costruzione era un povero ossario in cui erano stati riposti i resti delle vittime della peste dei tempi delle cronache manzoniane. Un lugubre monumento di morte travestito da luogo di fede.
Anche quella sera, verso le 22 tre scooter arrivarono alla meta per godersi la solitudine di quelle ore primaverili. I tre ragazzi erano denominati rispettivamente; Raspo, il più grande (17 anni figlio del commercialista del paese), seguito a ruota dal Debe e dal Riffa (15 anni entrambi, rispettivamente il figlio del fornaio e dell’elettricista). I loro mezzi ronzavano nel silenzio notturno illuminando i campi intorno a loro con il debole faro. Arrivati allo spiazzo spensero i loro motorini, abbandonandoli poi vicino alla piccola quercia e subito si posizionarono sulle panche. Neanche il tempo di mettere il culo sulle vecchie assi, che già il Raspo stava rollando la prima canna, era un fenomeno in quel campo il più preciso e veloce della sua età. Di contro il Debe tirò fuori una bottiglia di barbera denso e pastoso portato per l’occasione e lo stappò con qualche difficoltà.
<Raga sta sera si beve di brutto, questo l’ho rubato nella riserva pregio del mio vecchio... che ridere... se mi scopre mi incula...>
Il Riffa ne fu molto felice: <Dai qua fesso, che tu non hai il fisico per queste cose... l’ultima volta che hai bevuto un mezzo bicchiere di nero hai sboccato tutta la sera. Ti ricordi che hai inzaccherato tutta la scala della Betty solo dopo dieci minuti... sei troppo n’merda!> risa e amichevoli spintoni condirono la conversazione.
Il Raspo assente aveva già acceso la prima canna sparendo per un attimo in una nuvola di fumo estatico che usciva dalle sue narici soddisfatte. La serata sarebbe trascorsa così; qualche canna, una lieve ciucca, quattro cazzate... fino a tirare l’ora di andare a casa.
Quella sera però il buio aveva in servo delle tremende sorprese per i nostri giovani eroi.
Un rumore sordo venne dalla cappella e fece girare di scatto i tre che gli voltavano la schiena.
<Cazzo è stato! veniva da dentro la cappella...> disse sottovoce il Debe rivolgendosi agli altri due compari. Raspo continuò imperterrito a fumare mentre Riffa fece spallucce e disse assumendo un aria paurosa: <Cazzo ne so, un topo, oppure... oppure un terribile mostro che infesta la cripta... eh, eh, eh, minchia sei proprio un coglione...>
Un altro rumore lo fece zittire rompendo di nuovo il silenzio. Era come se qualche teschio, di quelli che ornavano l’entrata e continuavano giù per la stretta scala, fosse caduto e rotolato per terra.
<Oh cazzo, ancora... avete sentito!?> ringhiò il Debe sicuro delle sue parole, rivolgendosi agli altri due che avevano dubitato di lui. Ci fu un attimo di silenzio in cui il nervosismo divenne palpabile nell’aria e sui volti dei ragazzi che si guardavano come a cercare un segno di conforto reciproco. Poi una voce ruppe l’attesa del momento.
<Raga, volete entrare nella storia?> disse piano il Raspo uscendo dal suo torpore, guardando i visi attoniti e interrogativi degli altri due. Non ci fu risposta e il ragazzo continuò alzandosi e smettendo di trafficare con filtri e cartine.
<Andiamo dentro a vedere quel posto, nessuno l’ha mai fatto, tanto scassinare quel lucchetto è una stronzata. Ci state mezze checche?> disse indicando con il mozzicone l’oscura entrata ad arco acuto.
Gli altri due avrebbero voluto dire di no, ma il loro istinto adolescenziale ebbe la meglio (sarebbero stati degli eroi nella compagnia e le ragazze avrebbero stravisto per una simile impresa), deglutirono e annuirono quasi simultaneamente guardandosi negli occhi.
La cappella era chiusa da un cancello di ferro e vetro, serrato da un grande lucchetto dalla strana serratura. Il Raspo estrasse il suo fidato coltellino svizzero milleusi, dopo qualche bestemmia e ringhi vari il lucchetto cedette sotto le sue cure. Per un attimo parve che tutta la notte si zittì, anche i grilli e le rane nelle vicine risaie si ammutolirono sentendo quello schiocco che rimbombò come un boato nel buio. Gli alti abeti intorno alla cappella fremettero agitando nervosamente le loro fronde affusolate quasi in segno di dissenso.
I tre dopo aver aperto l’inferriata arrugginita si trovarono in un piccolo pianerottolo, a ridosso di milioni e milioni di teschi e ossa accatastati vicino ai muri e attaccati anche al basso soffitto a volta. Era veramente impressionante e la bassa fiamma degli accendini dava ai resti umani delle ombreggiature misteriosamente inquietanti. Un tanfo di chiuso penetrò presto nelle loro narici facendogli storcere il naso. Raspo, forte della sua esperienza fu il primo e cominciò a scendere le scale lentamente, facendo attenzione a non scivolare sui gradini sdrucciolevoli. Gli altri due dietro furono subito presi da un forte senso di agitazione, osservati da tutte quelle orbite cave che sembravano proprio aspettare loro. Dopo pochi gradini, una trentina in tutto, la scala finiva in una bassa cripta circolare dal soffitto a cupola. Quasi i tre sobbalzarono vedendo la quantità di ossa che riposava in quel luogo sconsacrato e antico. Il soffitto era interamente disseminato di resti che formavano strane decorazioni fatte di tibie, casse toraciche, teschi, attaccate lassù chissà in quale modo. Sulla parete di fronte a loro c’era un dipinto scrostato della Madonna incorniciato -ovviamente- da ossa di varia dimensione. Nel muro si aprivano anche alcune nicchie in cui riversi e ammucchiati stavano alcuni scheletri quasi completi. C’era un profondo odore di chiuso e ragnatele enormi scendevano ovunque penzolando come tetri tendaggi spettrali. I tre furono stregati da quel luogo che sembrava irreale e cupo come un incubo.
<Raga, sto posto è una figata... guardate quanti teschi... guardate quello che faccia schiacciata che ha... e l’altro assomiglia un po’ a...>
L’euforia del Debe fu smorzata da un leggero rumore alle loro spalle che li fece girare tutti di scatto trattenendo a stento un urlo di terrore. Illuminando per terra videro tra la polvere che un teschio era rotolato ai loro piedi e li fissava con il suo ghigno tetro. Uno strano scricchiolio accrebbe la tensione venutasi a creare e spinse i tre a illuminare tenuemente la parete di fronte a loro, proprio di fianco all’entrata da cui erano giunti.
All’inizio fecero fatica a mettere a fuoco la visione, poi i sorrisi sui loro volti svanirono per non tornare mai più. Nel mezzo di un groviglio di scheletri e ossa qualcosa cominciò a muoversi spostando la polvere secolare, accompagnato da un tremendo puzzo di marcio. Videro due occhi gialli fendere il buio, stringersi infastiditi dalla loro luce e una testa umanoide ma deforme, girarsi verso di loro con uno lento movimento. Un corpo grigio e magro, quasi quanto gli scheletri che gli stavano attorno, si mosse mostrando bislunghe gambe e braccia, entrambe munite di unghie affilate. La pelle e i muscoli erano tesi lungo le lunghe ossa sproporzionate che componevano quell’abominio disumano.
I tre restarono pietrificati dal terrore tenendo gli accendini di fronte a loro come per difesa, insensibili all’ustione della fiamma sui loro pollici. La creatura, che stava masticando il perone di uno scheletro, alla loro vista, lasciò il mesto pasto e fiutò l’aria allungando il volto raccapricciante verso di loro. Poi si mosse scostando le pesanti ragnatele che ricoprivano in parte la sua nicchia putrida. Le membra ritorte si mossero e come un orrido geco cominciò ad arrampicandosi lungo la parete, attaccandosi alle ossa che la ricoprivano con le sue mostruose appendici. I suoi movimenti erano innaturali, a scatti, come se non si muovesse da moltissimo tempo. Un leggero rantolo quasi umano fendette l’aria, seguito da un tremendo ruggito che di umano non aveva più nulla.
Il Debe cadde all’indietro lasciando spegnere l’accendino, il Riffa rimase pietrificato con la bocca semi aperta mentre il Raspo cercò subito di guadagnare l’uscita. Nell’oscurità la bestia si rannicchiò per scattare sul primo malcapitato. Il Raspo cercando la via di fuga si butto inconsciamente tra le sue grinfie. Ci fu uno scatto nel buio, poi il giovane sentì un puzzo abominevole venire dalle mascelle divelte del mostro che si stavano serrando sulla sua spalla. Poi sentì il freddo dei suoi artigli seghettati nella gola. I sui capelli dritti in piedi, biondo platino, si macchiarono del liquido cremisi e un forte dolore gli annebbiò i sensi. Gorgogliò qualche parola d’aiuto mentre il sangue gli sprizzava dall’aorta e gli riempiva tiepidamente la cavità orale andando giù nell’esofago.
L’essere non si curò troppo di lui, dopo averlo ucciso e strappato qualche brandello di carne giusto per gradire. Si accasciò sul cadavere sussultante del Raspo come una belva fa con la sua preda. Poi con le movenze di un predatore cadaverico si diresse verso il Riffa che stava ancora pietrificato con l’accendino in mano (e il dito ormai in fiamme). La bestia era curva, ondeggiante, con lunghi capelli argentei che gli scendevano sul corpo magro. L’essere con un movimento veloce gli agguantò un braccio facendolo riprendere dal blocco di panico.
<Per Dio! Cazzo aiutatemi... Raspo, Debe, Cristo santo... aiut...> urlò di terrore ma era già troppo tardi. Sentì unghie adunche sfondargli la cassa toracica, strappando il leggero maglione di cotone e deflagrando le carni deboli. Muscoli, tendini, ossa si tesero e ruppero sotto la pressione del mostro. Con un gesto feroce la bestia gli strappò fuori il cuore e se ne cibò emettendo bassi latrati di gradimento. Le sue carni slavate erano ormai lorde di sangue rosso che spiccava creando un disturbante contrasto. Il corpo del ragazzo dopo qualche secondo si accasciò a terra in una grossa pozza di sangue.
Il Debe nel frattempo si era accucciato vicino ad un ammasso di ossa e nel buio vedeva solo quegli occhi orrendi che fendevano la cripta, sentendo il terribile gocciolare del sangue sul pavimento polveroso e i rantoli di morte dei suoi sventurati amici. La sua mente era vuota, nulla riusciva a superare il terrore sovrannaturale che gli annebbiava i sensi. Sarebbe morto, lo sapeva, non avrebbero dovuto forzare una catena che era chiusa da decine, forse centinaia di anni, quella cazzata gli sarebbe costata molto cara. Sapeva che quella cosa stava divorando avidamente i suoi soci, ma questo non gli impedì di scuotersi e provare l’ultimo gesto atto alla sua sopravvivenza.
Approfittò del fatto che la creatura fosse stata impegnata nel suo empio pasto, quindi il ragazzo fece una grande sospiro, si rimise in piedi e si gettò a rotta di collo verso le scale che portavano fuori. Passò di fianco al corpo del Raspo già orribilmente dilaniato, fortunatamente senza quasi vederlo nel buio della cripta. Nella sua disperata corsa sfiorò la bestia intenta a maciullare e quasi scivolò sulle interiora e sul sangue che era fuoriuscito copioso dal cadavere del Riffa. Con le lacrime agli occhi si lanciò su per la scala intravedendo già il chiarore della notte. Velocemente salì gli scivolosi gradini ma prima di arrivare in cima udì un suono che gli raggelò il sangue. Con un lento cigolio il cancello si stava chiudendo sospinto da mani sconosciute forse malvagie o miserevoli. Appena fu su, con un tonfo l’entrata si chiuse dando ragione ai suoi più cupi presagi e gettandolo nello sconforto più totale.
Attraverso il vetro sporco intravide due figure di donne vestite di nero, con un lungo scialle a coprirgli i volti scarni. Sembravano vedove penitenti o qualcosa di simile. Stavano trafficando con il lucchetto e chiudendo di nuovo l’ossario.
Il Debe si scagliò contro i vetri menando pugni e gridando di farlo uscire, ma nulla accolse le sue preghiere, era come se non lo udissero o che non lo vedessero nemmeno. Le due donne avevano chiuso con una chiave grande e ruggine l’enorme lucchetto che avrebbe serrato quel luogo infame per altri lunghi anni. Le labbra delle due misteriose figure si aprivano e chiudevano velocemente, ed anche se non si sentiva ciò che dicevano, sembrava un soffuso e febbrile salmodiare. Le donne fecero il segno della croce più volte, chinando il capo e genuflettendosi, poi svanirono nella tremenda notte come spettri guardiani di inaccessibili misteri.
Il Debe menò ancora qualche pugno contro gli spessi vetri sbraitando come un pazzo e ne aveva tutte le ragioni.
<Maledette troie, bastarde... aprite... non lasciatemi qui... vi prego... cazzo, cazzo!>
Le sue urla divennero fievoli lamenti mentre si accasciava contro l’antica porta di vetro e ferro che lo aveva fatto prigioniero. Dietro di lui, sulla scala qualcosa si mosse e il tremendo tanfo tornò a impossessarsi delle sue narici. Si immaginò il mostro che curvo nelle tenebre stava raggiungendolo per finirlo. Il fiato putrido della creatura lo investì di nuovo presagendo un’agghiacciante fine. Una voce strozzata e disumana distorse il silenzio sibilando: <Fame... carne...>
Il suo puzzo era insopportabile, un promiscuo odore di muffa e vecchiaia, misto anche all’odore della carne e del sangue fresco. Il Debe non ebbe il tempo di fare nulla, si rannicchiò avvolto dall’oscurità, in balia dell’immonda creatura antica e affamata. Sapeva che la fine sarebbe giunta tra mille tormenti e così accadde. In un battito di ciglia il demone gli fu addosso. Le grinfie della bestia strapparono mezza faccia al ragazzo, che sentendo il calore del suo stesso sangue, quasi non si accorse della gravità della ferita. Il grugno piatto e mostruoso scese subito a dilaniargli il collo, sfoggiando una serie di denti seghettati estremamente funzionali ed affilati. Intanto artigli uncinati gli trapassavano le carni stringendolo in un mortale abbraccio.
Il silenzio tornò nella cripta, disturbato solo da un lento masticare, raschiare, deglutire e succhiare, chiari rimandi ad un pasto osceno e raccapricciante.

Fabio Ciceroni