Come se fossi ombra soffusa

L'altalena penzolava in modo sinistro, il cigolio delle catene evocava un poema che narrava di martirio e tortura, ma una stravagante delicatezza arginava quel segreto, una delicatezza innocente di lene petalo fluttuante.
Il crepuscolo s'accingeva a imbrunire le cose, e in quell'attimo il piccolo, spoglio parco giochi fu lambito da una fosca magia.
Un grosso uomo ammantato da un lungo cappotto incedeva nella strada deserta, il parco scorreva di lato lungo la sua lenta marcia, un enorme cane grigio accompagnava l'uomo in quella gelida sera deserta, il cane era sciolto e seguiva i suoi passi.
Con la coda dell'occhio l'uomo notò una sfumata, bianca figura, sembrava stare sull'altalena in impercettibile oscillazione. Intanto il cane si era allontanato dall'oscuro padrone, e ora annusava isterico la sabbia del luogo.
"Volcidor!" disse il padrone imperativo.
"E' tardi, andiamo".
Ma ancora quella soffusa movenza attirò il suo sguardo, sull'altalena infatti vi era una bambina, boccoli corvini cascavano lungo il suo volto di porcellana, un sorriso seducente, reso inquietante da chi lo generava, poiché quasi lascivo, s'allargava attorniato da labbra vermiglie.
Gli occhi striati di vene sanguigne dell'uomo si spalancarono, un occulto desiderio s'accese in lui, chiunque si sarebbe inquietato, lui invece sorrise e avanzò flemmatico come un orso, accarezzò quel viso pur riconoscendo in quegli occhi e nella vellutata voluttà del tocco di quella pelle la seduzione malvagia di un male sottile.

"Sei stato così brutale Vichelas, hai davvero esagerato" disse lei con voce fatata "Il male a volte si diverte a divenire nemesi mio dolce cucciolo sgozzatore, guardami, chinati e attingi un sorso delle mie piccole labbra profumate".
Vichelas folle si chinò, egli gestiva la notte di quel piccolo paesino, nessuna creatura della notte poteva spaventarlo, avrebbe scopato quello spirito insomma.
Così la baciò e sentì il sapore d'un languido aroma, un aroma dolce e cattivo che sapeva d'amore morboso.
"Io ti gestisco Vichelas, io ti nutro mio stupido trastullo, voltati".
Ed egli si voltò, una bambina che aveva ucciso tre giorni prima tra gli aghi di pino ora gli mostrava la testa mozzata del cane, le labbra ed il volto di lei erano impiastricciati di sangue.
Vichelas pianse di un pianto isterico, non vi era nulla che amasse più di quel cane.
"Morirai di nuovo!" A mascelle serrate egli proferì.
S'avventò sulla bimba di circa otto anni sollevandola dalla sabbia mentre lei lo mordeva selvaggia come un ratto sagace, ma Vichelas le schiacciò la testa sulla sabbia e il cervello fuoriuscì mescolandosi ad essa come fosse farina che si appiccica ad un truculento impasto.
Osservò soddisfatto il cadavere, poi pianse sui resti scempiati del mastino; si voltò verso la bimba sorridente sull'altalena e con il volto in lacrime le disse:
"Hai ridestato tu quel cadavere?"
"Sì Vichelas, poiché mi eccita punire voi psicopatici bestioni, e non ti ucciderò, nonostante posso, ti giuro che posso in centotredici modi o forse più, potrei scoparti fino ad ucciderti, ma per te dolce Vichelas, non vi è tormento più grande che quello di vivere nel tuo grottesco incubo, ascoltami quando riderò di te, mi scorgerai vagare nuda per i camposanti nottetempo, o sentirai le mie carezze nel sonno cullare la tua pazzia, aspettami Vichelas, come se fossi ombra soffusa.

Davide Giannicolo