Vasca

Appoggio la Gold Wing sul cavalletto e ne scendo. Mi soffermo un attimo a fissare l'edificio e l'onda dei ricordi mi sommerge: i manifesti sui vecchi muri dall'intonaco corroso, che annunciavano scioperi, inneggiavano contro la tirannia dei padroni, costellati di falci e martelli o fregiati da loghi sindacali... Il grande cancello scorrevole, la guardiola del portacarraio, i camion OM Lupetto e Tigrotto che sferragliavano sobbalzando sul binario. L'uscita, alle 17.30, con un gran movimento di Vespe, Lambrette, Fiat 500 e 127: fumo azzurrino di miscela, fari rossi che ammiccavano, motori che rombavano o scoppiettavano, gente che si salutava, passando fra i veicoli in manovra. Jeans, giubbotti corti in pelle (o similpelle) nera col collo di pelo, maglioni rossi neri e blu, coppole e berretti in lana con le "orecchie", oppure zazzere folte con il ciuffo sulla fronte ed i basettoni. La ricordo sì, la gente che veniva a lavorare in cartiera: gente della zona, di Belpasso Rocca e frazioni varie. Tanta gente.

 

Tolgo il casco e gli occhialoni che mi fanno somigliare a Francesco Baracca.

 

Non è la prima volta che vedo la Cartiera dall'epoca della sua chiusura, ma poche volte mi ci sono soffermato. Ho sempre tirato dritto, mi metteva tristezza.

 

Sembra ci sia più ombra, ed in effetti gli alberi sono cresciuti, soprattutto all'interno della recinzione: il cortile è quasi impraticabile. Sono giovani robinie, ma bastano a dare ombra e rendere quel senso di abbandono che ben conosco. Grossi cespugli di sambuco, rovi, e soprattutto ortiche completano il quadro. Il cemento crepato e diseguale del cortile è sparito sotto uno strato, per ora sottile, di terriccio: la Natura inizia a fagocitare l'aliena creazione umana.

 

Vedo delle ruspe che stanno per sferrare il contrattacco, però. Già un angolo del cortile è ripulito: a ridosso delle cisterne in ferro rugginoso, grossi cilindri sulla cui sommità crescono dei cespugli mentre le liane colonizzano scalette e sostegni, sorge un prefabbricato. Sotto una coltre di rampicanti si erge la cabina Enel che a suo tempo alimentava la ditta: sembra abbandonata ma è ancora attiva. La porta in ferro è aperta su un riquadro nero, il sudario di edere è lacerato in quel punto. Dalla cavità oscura escono voci. Forse la settimana prossima ci sarà corrente per il cantiere: ed inizieranno i lavori per il "Condominio Cartiera". Lo dice un borioso cartello che illustra come apparirà lo stabile una volta trasformato.

 

Non mi piace. Interferisce con i miei propositi.

 

Ma so che ho tempo.

Il cancello scorrevole è aperto. Le liane lo soffocano, è tutto ruggine, come del resto già ai tempi, ma non c'è più il segno argentato dove la catena veniva fatta scorrere tutte le sere per chiudere. In quel punto il telaio è distorto: l'hanno agganciato a una ruspa per fare saltare la vecchia catenaccia e per vincere il mortale abbraccio dei rampicanti.

 

Mi addentro nella savana che fu il cortile. Il palazzo incombe su di me: ancora più grigio, ancora più macchiato di ruggine che cola e di calcare disciolto dall'acqua che cola dal piatto tetto di cemento, sul quale vedo prosperare un autentico boschetto. Festoni d'erba spenzolano dal cornicione sbocconcellato, edere si avvinghiano ai pluviali in parte marciti e sbilenchi, sul punto di crollare frantumendosi in un vortice di scaglie d'ossido.

 

A parte gli adetti alla cabina, che parlottano coi tecnici dell'Enel, solo due operai sono presenti: eccoli lì, col caponcantiere, che cercano di forzare il cancelletto a vetri della ex-ditta. I vetri beninteso sono infranti, in buona parte: vedo i buchi prodotti da sassi, presumo, scagliati a forte velocità da una fionda, credo, ma anche fori d'arma da fuoco.

 

Nessuno bada a me.

 

Alcuni scalini portano alla soglia: una scaletta metallica, dai gradini ancora in parte coperti di gomma zigrinata antiscivolo. E' sommersa dai cespugli.

 

Uscivano di qui, gli impiegati. Pochi uomini, e parecchie ragazze. Carine, con acconciature da "signora" che si facevano fare magari dall'Armida su a rocca o da Nina Coiffeuse a Belpasso quelle due che da lì venivano di sicuro. Le guardavo incedere sui tacchi degli stivali o sulle suole alte dei sandali estivi, con gli immancabili occhiali che davano loro un'aria che ... non so, come di una professoressa. Scendendo la scaletta a volte le gonne plissettate svolazzavano mostrando qualche centimetro della pelle morbida e tesa sopra il ginocchio. Quando d'inverno indossavano le "mini" con lo spacco e gli stivali, io andavo in sollucchero.

 

Da adulto sarò un direttore ed avrò una fidanzata così, mi dicevo. Diventare un matusa aveva pure avere dei risvolti positivi, notavo, ed uno di questi, oltre i soldi e la macchina, era andare con delle donne "vere", come queste.

 

Gli uomini avevano le stesse facce degli operai, ma più curate, ben rasate. Me li ricordo bene: la giacca a quadri dal bavero largo, la cravattona, la camicia dall'ampio colletto, i pantaloni a zampa di velluto o fresco di lana, uscivano sistemandosi il soprabito in pelle, dando un occhio all'orologio e sgambettando verso la "132" per godersi il comodo tragitto verso casa ascoltando Santana in cassetta guidando placidamente sulle strade serpeggianti della Vallata, mentre il sole scende dietro le alture ...

 

I muratori armeggiano con degli attrezzi, con scarsi risultati. Il portoncino è in ferro, la metà inferiore chiusa da un pannello in lamiera ruggine, sopra, i soliti riquadri. E' sormontato da una tettoia, ora pericolante, che ben ricordo. Strano che nessuno abbia, in tanti anni, violato quell'accesso. Lo notano. E da parte mia noto come è assurdo che si perdano regolarmente tutte le chiavi: non ho mai visto aprire una porta di un edificio disabitato adoperando il mezzo idoneo.

 

Li seguo.

 

Aggiriamo l'edificio, attraverso l'ombrosa savana. Passiamo dai reparti. Le porte scorrevoli sono spalancate: per forza nessuno si cura dell'accesso laterale. Le piastrelle rosse sono coperte da un sottile strato di sudiciume che sta autopromuovendosi a terriccio. Già cresce il muschio.

 

Silenzio, abbandono. Relitti di macchinari giganteggiano coperti di ruggine: avanzi di tramogge, calandre. Mazzi di tubi corrono sul soffitto nascosto nell'ombra. Si interrompono, dove sono stati spietatamente segati per asportare senza troppe remore qualche apparato. Il pavimento è sconvolto in più punti: lì dove hanno divelto le macchine dal proprio supporto di cemento. Il buio cerca di impossessarsi del luogo anche durante il giorno, e quasi vi riesce.

 

Ci aggiriamo come violatori di tombe. Dall'alto filtrano fasci di luce dai grandi finestroni metallici a riquadri, i cui vetri lato Vallata sono ancora in parte intatti. Fronte strada è stata una autentica falcidie, invece. Scale in cemento salgono di sopra. Apparati elettrici penzolano appesi ai cavi, divelti dalle proprie sedi. Leggo etichette fatte con la Dymo, ancora saldamente adese: "Trituratrice Sett.B" "Mescola Sett.B" "Pompe A" "Pompe B". Anche se li azionassi, questi interruttori penzolanti, nulla accadrebbe. Qui tutto è morto, silente.

 

Questi che sono qui, sono dei profanatori di sepolcri, gente che svende la memoria. Sì, sarebbe più giusto che tutto ciò sparisse lentamente, scivolasse nell'oblìo, come Paestum, la quale rimase un mistero per ottocento anni. Niente restauri, recuperi, improbabili forzati riutilizzi. Sarebbe un giusto tributo a ciò che le cose sono state.

 

Gli operai non sembrano notarmi, meglio così, quindi decido di salire a fare un capatina nel reparto uffici.

 

E' lì che sento che c'è qualcosa che mi interessa. Basterà un attimo.

 

Di sopra c'è più luce, mi sento meglio. Salite le due rampe di scale trovo un pianerottolo abbastanza ampio. Ci sono ancora reparti, depredati dai loro macchinari: stanzoni vuoti, alti, dai muri butterati. Tiranti in ferro vanno da una parete all'altra. Ampie aperture nei pavimenti comunicano coi reparti sottostanti. Vedo i resti di un montacarichi: delle rotaie, delle placche di ferro immurate, supporto di un motore.

 

Giro a sinistra, e trovo gli uffici. Una parete prefabbricata, in alto vetro, sotto pannello, sbarra lo spazio fra due pilastri, e delimita ancor oggi l'area. Il confine: di qua gli operai per definizione rozzi e materiali, di là gli impiegati per definizione gente acculturata e fine. Cazzate, direte adesso, che i ragazzi sono senza futuro e con un diploma in tasca lavano i cessi o infilano depliant nelle cassette della posta. Molto azzeccato venticinque, ventotto anni fa, con le debite riserve. Ma so per certo che le ragazze che lavoravano qui ben difficilmente avrebbero flirtato con un operaio dei reparti. Come se la tiravano le poche diplomate di Belpasso e Rocca ai bei tempi! Avrebbero sicuramente, e ben volentieri, fatto un'eccezione per gente "intellettualmente impegnata" come i due fratelli Massari, ma basta. O eri un intellettuale di sinistra, magari affiliato a Lotta Continua, o dovevi essere più grande, laureato e con la macchina ... Mi piacerebbe sapere con chi ( e di qualcuna lo so...) hanno poi finito per sposarsi!

 

Cammino su di una moquette sgualcita, umida, sporca di terriccio e detriti. Qualcuno ha divelto la leggera porta della parete prefabbricata, i vetri verde scuro sono al suolo, infranti, il battente giace poco più in là, con la sua scritta "UFFICI". Ci sono ancora scrivanie al proprio posto, altre sono rovesciate, vandalizzate. Spettacolo che conosco bene: datemi un edificio abbandonato e vi dò due mesi per vederlo ridotto in rovina. Ci sono ancora i cassonetti con le termoventole sotto le finestre: alcuni hanno ancora il selettore rotondo con rosso ed il blu per la temperatura, altri sono sventrati e perdono contenuto ed isolante come interiora.

 

Un archivio Trau Olivetti è stato devastato. A terra giaccono raccoglitori sfasciati e cassette in legno con ancora parte delle schede. Ne raccolgo una, e sono folgorato dalla data, 1976. Mentre io vagavo col vespino e venivo qui a curiosare, qualcuno batteva nella Olivetti Lettera 88 questa scheda clienti, con inchiostro blu e rosso. Rifletto sulla relatività delle cose: quella scheda in ordine era il preciso compito di una persona in quell'autunno '76, guai a metterla fuori posto ... adesso guarda te, giù per terra, come spazzatura.

 

Hanno ragione i preti ... "polvere sei..."

 

Di colpo ho un forte sentore della mia morte. La mia caducità diviene cosa reale. I miei immobili, l'agenzia, i fondi di investimento giù al Credito Cooperativo non mi salveranno dalla distruzione.

 

C'è una cupa minaccia in questa tappezzeria verde scuro che cade a brandelli, nei neon lassù sul soffitto grigiastro segnato dalle infiltrazioni, nelle tende marcite ancora in parte appese alle proprie rotaiette. Queste cose morte, sfasciate, ma ancor più ciò che si è innaturalmente salvato dalla generale distruzione, come quel telefono a disco, grigio, che se ne sta laggiù su una scrivania come se ... Tutto ciò sembra volermi fagocitare, trascinarmi con sè nell'oblio.

 

Il sole inizia a scendere. Beh, non è opportuno attardarsi qui dentro, col buio. Si può scivolare, cadere in qualche apertura, ci sono condotte, cisterne, vasche sotterranee, ancora minacciosamente piene d'acqua i cui chiusini sono aperti, ed una in particolare, laggiù, in fondo al reparto B, che si spalanca come una bocca nera nel nero dell'ombra del reparto ormai quasi inghiottito dalle tenebre.

 

Acqua scura, limacciosa, che nasconde chissà quali pericoli. Come tubi, flange, o altro che ti può bloccare le gambe, impedirti di nuotare, di emergere, di salvarti ...

 

Se ne saranno andati? Mah... è l'ora di scendere. E' probabile che rimettano a posto il cancello e mi chiudano dentro. Ma vedranno la moto: è grossa, imponente con la sua carenatura enorme, il motore a sogliola a sei cilindri, le borsone laterali ...

 

Ma com'è che non l'hanno sentita? D'accordo, non è rumorosa, ma un mezzo in arrivo si sente.

 

Meglio affrettarsi ad uscire. Questo posto non mi piace: è un paradigma di morte. E sento che mi minaccia. Sta a vedere che mi faccio male, in sto postaccio. Accidenti a me e a quello che son venuto a fare. Non ci dovrei stare, qui, lo so. E non ho neppure una pila.

 

Eppure ci vedo. Vedo tutto, sebbene il sole scenda velocemente. Sono le diciotto, ma è già autunnno, fra poco gli alberi perderanno le foglie, inoltre il sole tramontando dietro la Rupe oscura presto questo valletta laterale. Distinguo gli ostacoli ma anche i più piccoli oggetti: è come se qualcuno li illuminasse. Effetto ottico? Ne approfitto, vincendo la paura. Tant'è che decido di entrare nell'ufficio del direttore a curiosare. Sarà lì ciò che sembra io stia cercando? C'è un'anticamera, con ancora la scrivania della segretaria. I cassetti in lamiera verde sono aperti. C'è ancora qualche foglio, impolverato, ingiallito.

 

Ne raccolgo uno. Ho un brivido. C'è una data, ancora una data: 1984. Altra folgorazione: so che non ci saranno più altre date, per questo luogo. E' da quell'anno che ogni attività è cessata.

 

Sono agitato. Paura? No. Adesso che scopro che per un motivo misterioso riesco a vederci lo stesso mi sono fatto audace. Sono agitato perchè qualcosa si fa strada dentro di me e mi attira verso un certo luogo. Il presentimento della mia fine è sempre forte, e qualcosa mi dice che è collegata a questo posto, ma per ora non capisco come, l'attrazione verso l'ufficio oscuro che si apre dietro di me è superiore ad ogni altro stimolo.

 

Debbo entrare lì, prima di scendere di sotto.

 

Entro. Di qua c'è l'ufficio direzionale, oltre un'altra parete, questa in mattoni ed ancora rivestita da pannelli in legno variamente vandalizzati c'è la saletta delle riunioni, con la sua moquette rossa. Il lungo tavolo a losanga non c'è più. Ma è l'ufficio che mi attira, inesorabilmente. So cosa c'è dietro un pannello, che può essere rimosso e poi riposizionato.

 

Avanzo nel buio luminoso, e mi blocco di colpo. Le mie mani si protendono verso lo sportello metallico, dietro il pannello rimosso e gettato sul pavimento, sudicio di polvere e detriti. Chi poteva sapere?

 

Chi ..... ? Ma lo sportello è chiuso, inviolato, ed io non potrò aprirlo ...

 

E allora capisco. Capisco e ricordo. E piango, sconsolato, un urlo terribile, che non è umano.

 

Loro sono lì sull'orlo della terribile buca, un rettangolo di 5 metri per 3, che continuava sotto il pavimento e, attraverso la parete, anche sotto il piazzale non si sa per quanto, colmo di liquido nero come la pece, nel quale scendeva lo scivolo sul quale era facile ruzzolare se non lo si notava per tempo. Di giorno era ancora facile, ma col buio ...

 

Sono lì, nel buio, quando mi odono. Un ululato spaventoso, agghiacciante, come di una belva ferita. Gli occhi si sbarrano, mentre la pelle si accappona ed i muscoli si tendono dolorosamente, divenendo come di sasso.

 

Dirigono i fasci di luce delle pile verso le scale ... e mi vedono scendere, lentamente, con passo pesante e cadenzato, il capo chino. Sento la luce passarmi attraverso, ma non mi stupisco, ricordavo tutto ...

 

Gridano e mi additano, mentre l'acqua scura inizia a ribollire, gorgogliando in maniera raccapricciante.

 

Si allontanano dalla vasca, in direzione dell'uscita, urtandosi, rischiando di inciampare o finire in uno dei chiusini aperti. Si precipitano fuori, negli ultimi fiochi lucori del tramonto.

 

Li vedo fuggire, mentre scendo le scale, rassegnato. So che adesso devo scendere di sotto, laggiù. Perchè avete paura di me? E' il mio aspetto che vi turba? O il terribile gorgogliare dell'acqua che mi chiama, liquida prigione che reclama il dannato che vi è rinchiuso?

 

Ogni sera, da quel 1984, io ripercorro il mio calvario e riscopro la mia morte.

 

Ogni sera io mi illudo di arrivare in moto, scendere e salire a recuperare i preziosi documenti che ancor oggi sono rinchiusi nella cassaforte. I documenti che sono la prova della mia colpa, e che senz'altro qualcuno prima o poi leggerà, quando avranno iniziato i lavori.

 

Ma non potrò mai completare ciò che mi accinsi a fare quella sera, al buio, quando incautamente scivolai e caddi nella vasca, mentre tornavo a prendere le chiavi che, nella frenesia del colpevole, lasciai nel portaoggetti della Gold Wing.

 

Ogni sera io arrivo, salgo e urlo di dolore e rabbia ... ogni sera al tramonto sono condannato a riprendere coscienza della mia morte, e ritornare laggiù, dove l'acqua ribollente mi chiama inesorabile, nella prigione che racchiude la mia anima ed i miei resti mortali che nessuno riuscì mai a recuperare, e che forse nessuno troverà nemmeno quando qui, sulla mia tomba, avrete eretto una casa ...

Leonardo Zarrelli