Palpebre

E' sempre stato un mio grande problema, e, a dirla tutta, la cosa non mi dispiace affatto. Adoro quando i muscoli si irrigidiscono, i polmoni si gonfiano di colpo e le palpebre si ritirano. Tutto in un millesimo di secondo, perchè è già finita prima che tu riesca a pronunciare "adrenalina".

 

Quella sera il sonno si era fatto sentire prima e più del solito. Riuscii a malapena ad infilarmi a letto. Con gli occhi pesanti come avvolti dalla colla inseguivo il filo dei miei pensieri, e il dormiveglia sopraggiunse quasi immediatamente. Fu alora che lo sentii, chiaro e reale come sento la sigaretta che stringo fra le labbra mentre scrivo. Era una voce, pura e semplice, non roca, non gutturale o stridula come ci si aspetterebbe. Una voce maschile come ce ne sono tante. Niente rumori o lamenti. "Volando chiedeva aiuto", disse. Ancora una volta le palpebre si ritirarono e ancora una volta il cuore mi fece capolino tra le costole.
Rimasi immobile per qualche attimo, mi parve un secolo o poco più. Mi alzai e accesi la luce senza scendere da sopra il materasso. Un'occhiata intorno e una sotto il letto giusto per rimembrare i bei tempi di quando ero bambino. Poi toccò alle scale fuori dalla camera. Niente. C'era d'aspettarselo. Tornai a letto e spensi la luce, ma solo dopo aver acceso la tv, la quale mi dava quel chiarore minimo per permettermi di non morire di paura, dormii.
Passarono settimane, forse due, forse tre. L'episodio non aveva intaccato la mia vita sociale e continuai a comportarmi come al solito. Dormivo, mangiavo, uscivo, vedevo gente. Gente che mi convinse a usufruire dei mezzi pubblici per recarmi ad un concerto che si teneva a tre ore d'auto da casa mia. La stessa sera, tornando, la stanchezza si fece risentire. Gli occhi si appesantivano e il vagone nel quale mi trovavo diveniva sempre più sfuocato. Sbattei le palpebre una volta, due volte. La terza volta restarono chiuse per un un secondo in più. Riaprendole notai alcune differenze intorno a me. In primo luogo ero tutt'un tratto da solo, e inoltre il treno sul quale viaggiavo sembrava essere invecchiato vistosamente dall'ultima volta che lo avevo visto, appunto poco più di un secondo e mezzo prima. Mi alzai in piedi. L'illuminazione era buona e il fracasso di ferro contro ferro che veniva dalle rotaie contribuì a svegliarmi. Camminai. Feci qualche passo fino a portarmi nel corridoio centrale, in mezzo ai sedili che avrebbero dovuto ospitare dei passeggeri. Guardai prima a sinistra, per il verso in cui il treno viaggiava, dopodichè passai alla destra. Niente in entrambe le direzioni. Nè nella mia carrozza nè in quelle vicine si distingueva figura umana.

Mi fissai ancora una volta a sinistra con lo sguardo, cercando di scorgere segni di vita nel vagone dopo quello accanto al mio, la motrice probabilamente. Attraverso i vetri guardai oltre i 4 portelli che mi separavano dall'autista. Almeno lui doveva esserci. Strinsi lo sguardo. Intravidi una figura che si fermò in mezzo al corridoio tra i sedili. Pensai ad un cotrollore. Chiusi gli occhi e me li strofinai per un attimo con il dorso delle mani. Quando li riaprii tutto accadde in un millesimo di secondo. Vidi la stessa figura di colpo più vicina, nel vagone accanto al mio. La divisa in effetti era da controllore ma fui stordito perchè... sembrava che avesse in faccia una specie di grossa maschera grigia e pelosa, simile alla testa di un coniglio. Si avvicinava lentamente, quasi a non voler farsi sentire, ma senza preoccuparsi di nascondersi. Rabbrividii. Sentii qualcosa sulla spalla destra. Una mano. Stolzai voltandomi. Avevo davanti uno strano ometto dai capelli bianchi e radi infilato in una sorta di frack. Una piccola testa. La faccia magra e solcata da profonde rughe. "Ho visto il diavolo", disse, "cantava. Era dietro di me".
Tre interminabili secondi di ambigua quiete immersi in un surreale silenzio. Mi rivoltai istintivamente indietro di scatto e vidi ancora la figura con la testa di coniglio. Stavolta a poco più di un metro da me che allungando le braccia emise un suono simile ad una A. Lo stesso suono che emisi io stesso svegliandomi di soprassalto. Ero sul mio letto. nella mia camera. Guardai l'orologio. Le 15. Caddi con le spalle sul materasso con un tonfo misto all'espressione "cazzo!", la quale usci però dalla mia bocca.
10 minuti dopo ero in cucina a spalmare maionese su un tramezzino. Non pensavo lontanamente al sogno dal quale ero appena uscito. Il cane grattava insistentemente alla porta. La aprii per farlo uscire. Fui accecato momentaneamente dai raggi del sole. Proprio una bella bella giornata. Addentai un altro morso del panino che tenevo in mano e mi avviai senza fretta verso l'esterno. Non pensavo lontanamente al sogno dal quale ero appena uscito. O meglio, non pensavo proprio. Mi guardavo intorno intontito dalla realtà.
L'aria fresca cercava invano di svegliarmi. Arrivato all'incirca a metà del vialetto che separa la porta di casa dal cancello esterno, ebbi una strana sensazione, che classificai come "non completamente aleatoria" appena vidi sbucare da dietro la siepe, fuori dal cancello, l'ometto che poco prima avevo visto in sogno. Lo riconobbi solo dopo pochi istanti perchè stavolta portava un cappello nero a tesa molto larga e stringeva un ombrello, nero anche questo, nella mano destra. Sgranai gli occhi e probabilmente aprii la bocca perchè un pezzo di pane mangiucchiato cadde in terra. L'ometto aveva la faccia più strana "del solito", pareva trattenere una risata.
Mi voltai ancora una volta di scatto indietro e al di là della porta che mi ero lasciata aperta alle spalle distinsi una figura ben delineata ma ugualmente confusa per via di vari fronzoli che sembravano partirgli dall'abito. Una figura che sembrava danzare. Lentamente. Rigirai la testa verso il cancello e vidi l'ometto che allungava il braccio sinistro fino a far passare la mano in mezzo alle sbarre del cancello, avvicinando le dita al pulsante che lo avrebbe aperto. Ancora una volta guardai verso la porta di casa e la figura danzante appariva sempre più nitida. Una maschera in testa. "il coniglio!", pensai. Ma quelle che sembravano orecchie si rivelarono corna. "Entro", sentii alla mia sinistra e voltandomi vidi l'ometto premere il pulsante del cancello. Il rumore mi rimbombò nella testa come il tonfo di un sasso scagliato all'interno di un gigantesco silos metallico. Sbattei velocemente gli occhi e ruotai la testa più volte in preda al panico. Finchè la figura dell'ometto non aprì il cancello sporgendovisi oltre con un un braccio allungato quasi a voler prendere possesso del territorio, e l'altro, il sinistro, accostato al torace.
Il boato provocato dalla serratura del cancello si trasformò in una serie di tonfi. Riaprii gli occhi. Ancora a letto. Ancora guardai l'orologio. Le 15.15. Sobbalzai quando i tonfi che credevo parte del sogno si ripeterono. Qualcuno bussava fuori dalla porta. Dormo sempre chiuso a chiave in camera. Accennai ad alzarmi per andare ad aprire ma mi bloccai non vedendo la chiave sotto la maniglia. Non feci in tempo a chiedermi il perchè quando la sentii girare nella serratura. Uno scatto. La maniglia che ruota. "Entro".
Riaprii gli occhi. Di nuovo a letto. Sudato. Non ebbi nemmeno il coraggio di uscire da sotto le coperte per accendere la luce. Guardai l'orologio. Le 15.17. Chiusi gli occhi bagnati dal sudore misto a lacrime. Un rumore. In fondo al letto. A mezzo metro dai miei piedi. Strinsi le palpebre. Non le riaprii. Sperando di svegliarmi. O di riaddormentarmi.

 

E' sempre stato un mio grande problema, e, a dirla tutta, la cosa non mi dispiace affatto. Adoro quando i muscoli si irrigidiscono, i polmoni si gonfiano di colpo e le palpebre si ritirano, tutto in un millesimo di secondo, perchè è già finita prima che tu riesca a pronunciare "adrenalina". Già, è sempre stato un mio problema, quello di non distinguere la realtà dal sogno. Così preferisco sognare. Restando in un posto dove ti illudi non possa succederti nulla a livello fisico. E dove intanto i tuoi stessi demoni (leggi fantasie) giocano a ping pong con la tua mente.

Marco Buzzini