Chi ha paura del gatto nero?

"Intelligenza, impegno e forza d’animo
non servono a nulla
se la sfortuna
è stata accomunata al tuo destino"
J. 

"Il male è potenza vincente"
(Mefyst II° 1612 Oct. 29)

 

AGOSTO 19.. ( venticinque anni fa )

 

- Ma, Iole… stai dicendo sul serio? È proprio così che l’hanno trovato? -

 

L’anziana donna storse la bocca in una strana smorfia, non riuscendo a reprimere un senso crescente di disgusto. Si strusciava le mani continuamente nella giacchetta azzurrina. Era nervosamente inquieta già per natura, figuriamoci con simili argomenti in ballo.

 

- Sicuro. - Affermò la vecchietta, mentre continuava a sferruzzare ad una velocità incredibile per la sua età. Dimostrava un po’ di anni in più della sua pur attempata amica.

 

- Me lo ha detto mio nipote Franco -, continuò, - e gliel’ha raccontato un altro poliziotto suo amico che si era trovato presente al ritrovamento. Vedendo le condizioni del morto si è sentito male e per poco non vomitava e… accidenti ho perso il punto. - Il filo di lana giallo ocra era a penzoloni del pezzo di maglia da poco iniziato.

 

La vecchia Iole prese a rincorrerlo con l’uncinetto nel tentativo di effettuare un aggancio impossibile. Il filo le sfuggiva continuamente, arrotolandosi attorno al ferretto come un serpentello d’acqua.

- Gliel’hanno strappato? Voglio dire, era proprio senza… cuore? -, riprese l’altra donna. Il disgusto iniziale, ormai anteposto alla curiosità, era stato relegato ad una delle ultime posizioni nella categoria delle sensazioni. Si era però falsamente perpetrato, per mantenere l’immagine, in una poco credibile continuazione di labili smorfie facciali, che non ottenevano altro risultato se non di increspare ulteriormente le già profonde rughe del suo volto e mettere in mostra i due soli e storti incisivi inferiori che le erano rimasti in bocca.

 

Rimaneva comunque un’espressione più giovanile di quella della sua compagna, oramai sul decrepito andante, raggrinzita, incurvata e rimpicciolita da sembrare un essere secolare.

 

- Sì. E ti dirò di più, - s’infervorì la vecchia, che nel frattempo aveva deposto l’uncinetto sul tavolino antistante e si era messo il pezzetto di maglia gialla in grembo - resti tutto in confidenza… sono cose che mi ha detto sempre mio nipote. Ti ho già detto che fa il poliziotto? -

 

La donna accennò positivamente con un gesto del capo, insistendo nel mantenere quel suo atteggiamento falsamente terrorizzato. Il desiderio di sapere le si leggeva comunque in faccia, come se l’avesse scritto in fronte a lettere cubitali. E la vecchia oramai conosceva bene i suoi polli.

 

- Franco, mio nipote… - iniziò la vecchia Iole, sospendendo il discorso e ripartendo solamente dopo aver recuperato l’uncinetto con il filo di lana e ripreso a manovrare a ritmo incalzante, - …sempre saputo da quel suo amico, dice che c’erano cinque segni rossi, sicuramente graffi prodotti da un grosso animale, che andavano dal petto alla pancia per almeno mezzo metro, e profondi anche. - Marcò decisamente sulle ultime parole.

 

L’altra donna si lasciò sfuggire un lungo sospiro di sbalordimento, portandosi la mano destra davanti alla bocca con gesto plateale.

 

- Hanno trovato anche dei peli, sembra. Grossi come stuzzicadenti e neri… -

 

- Un… una belva? Magari scappata da un circo. Un leone? Una tigre? - chiese l’altra, speranzosa di un subitaneo seguito alla storia.

 

- Forse, ma non so altro. È successo da solo due giorni e Franco non l’ho più visto. È dovuto partire per Grosseto. Lavora là, lo sapevi? Fa il poliziotto. -

 

La donna rimase vistosamente ed oltremodo delusa. Le sue capacità inconsce di assumere l’espressione più consona al suo pensiero le fecero produrre una smorfia che non lasciava dubbi in proposito.

 

- Dovrebbe tornare a fine settimana, - riprese la vecchietta, - e comunque… - continuò, lasciando in sospeso la frase con lo sguardo tipico di chi si è tenuta l’ultima parola per stupire con un colpo di scena finale. Si avvicinò di poco alla sua amica e finì con un tono di voce più basso, quasi da segreto. - Filomena… - con dito indice le indicò di avvicinarsi - c’era la luna piena. -

 

Lasciò un attimo di pausa ad effetto.

 

- Era luna piena quando è successo. - Riprese, alzando la modulazione e improntando un largo soddisfatto sorriso sdentato.

 

La più giovane, per modo di dire, la fissò, meno sorpresa dall’affermazione di quanto la vecchia avesse previsto, o voluto. Forse sperava in qualcosa di più sensazionale. - E allora? -, le chiese.

 

- Non ti ricordi quella vecchia filastrocca… - le disse come se tutto il discorso dovesse ormai essere scontato.

 

L’altra dava segni di impazienza, di fronte a quella serie di indizi che le venivano dati per continuare la conversazione. Per ora non era altro che uno sproloquio senza senso del quale non riusciva ad azzeccare il bandolo.

 

- Ascolta… -, le parlò di nuovo a bassa voce, riavvicinandosi come se dovesse comunicarle un segreto ancora più segreto.

 

- "Un quarto di cento, ogni volta,
ripeteva il matto,
a caval della luna
se ne sta il diavolo, quatto,
per toglierle il cuore.
Nella forma di un gatto
a riscuotere l’anima,
a pagamento di un patto." -

 

Un attimo di cupo silenzio accompagnò le due donne nel loro incrociarsi di sguardi.

 

- Ma dai Iole, non penserai che… -, un ricordo. Venticinque anni prima. Come un fulmine saettò chiaro fuori dalla sua memoria. Aveva appena superato i trenta e lei, Filomena Barozzi, era ancora una bella donna. E via indietro nel tempo, altri venticinque anni, un altro quarto di secolo… e lei era solo una bambina di quasi sette anni. Ne aveva solamente sentito parlare nei discorsi degli anziani. Ma ora, ci sbatteva contro per la terza volta… tutto divenne lampante. Terribilmente nitido.

 

Il terrore che provava adesso era vero. Puro ed insano terrore. La sua espressione non era più finta, non un’ombra di forzatura. Sembrava lei ora la più vecchia delle due.

 

AGOSTO 20.. ( adesso )

La Fiat Multipla color ‘testadimoro’ parcheggiò subito in fianco alla scalinata sottostante l’accesso principale all’albergo.

 

- Motel Siesta Italia. - borbottò contrariato l’autista, - che schifo di nome per un albergo. A tre stelle poi… -

 

La giornata era stata pesante, con un’afa, pensò, che avrebbe fatto sudare anche un cammello. - Chissà se sudano i cammelli. - si chiese dopo una simile profondità di pensiero. Tranciò subito il discorso stupido, senza neppure l’idea di protrarsi alla ricerca di un’inutile risposta del cazzo. - E per di più non ho venduto un accidenti di niente. - riprese muggendo più che parlando, - guarda te se in agosto, con la maggior parte dei meccanici in ferie devo rompermi il culo a girare per vendere sì e no quattro fottute candele. -

 

Continuò a sbraitare tra sé finché non giunse alla reception dentro l’albergo dove, dietro un bancone semicircolare in legno, tipo western saloon, un impiegato con un orribile gilet color rosso porpora, vestito sopra ad un’altrettanto orripilante camicia bianca con un colletto gigantesco, lo accolse con un accorato quanto falsissimo sorriso d’occasione, stampato su di un faccione da schiaffi enorme.

 

- Buonasera signore, bene arrivato. -

 

- Buonasera. - Rispose sfilandosi la cravatta, mentre le prime gocce di sudore gli facevano capolino sulla fronte, a ricordargli che era nel bel mezzo della Pianura Padana con trenta gradi alle nove di sera, con minimo l’80 % di umidità e inducendolo a rimpiangere non poco il condizionatore della Multipla, abbandonato da appena due minuti, forse meno.

 

- Sono Finessi. Raoul Finessi. - Si slacciò un paio di bottoni della camicia. - Ho una prenotazione - aggiunse mentre infilava la cravatta nella tasca della giacca.

 

- Sì certo, signor Finessi. L’aspettavamo. - Il sorriso dell’impiegato pareva più stampato di una fotografia. Si volse a prendere una chiave nel riquadro sulla parete alle sue spalle e la poggiò sul tavolo. Il portachiavi a confronto sembrava un dirigibile.

 

- Stanza dodici, - disse, - ha dei bagagli? -

 

- Solo queste. - Raoul indicò le due valigie che aveva appoggiato vicino ai piedi. - Faccio da solo, grazie. - si affrettò a dire all’altro, anticipando la frase rituale e scontata da portiere.

 

- L’accompagno. - Si limitò a dire questi, cogliendo al volo l’idea senza insistere. Una fatica in meno, pensò.

 

La doccia fredda che Raoul aveva lungamente desiderato, nella realtà era stata una misera doccia tiepida, con l’acqua che non fuoriusciva neanche tanto forte.

 

Uscendo gocciolante dall’angolo del ripiano doccia, con solo una tendina di plastica a fiori sgargianti come divisorio, si accorse che stava già sudando nuovamente.

 

L’accappatoio fornito dall’hotel era ruvido peggio di una grattugia e fastidioso come non mai al contatto con la pelle. Se lo tolse, stizzito, e lo gettò a caso in avanti mandandolo a finire giusto sul bidè color nocciola.

 

- Di uno schifosissimo e fetente nocciola chiaro. - si trovò a sbraitare.

 

Odiava il nocciola, in tutte le sue tonalità. Gli ricordava il colore della merda di neonato e gli dava un senso di… profondo disturbo si potrebbe chiamarlo. Odiava anche gli accappatoi ruvidi; e quando le due cose combaciavano, le altre due cose cominciavano a girargli vorticosamente.

 

Ma quello che più lo infastidiva erano le saponette alla lavanda. E nel bagno cosa aveva trovato? Ben due luridissime saponette alla lavanda. Possibile che in tutti posti nei quali era costretto a fermarsi dovesse trovare sempre e comunque saponette alla lavanda? pensò rabbioso. Hotel, locande, ristoranti, semplici bar. Sempre e solo fetentissime saponette alla lavanda. E anche qui, una nella doccia e l’altra sul lavabo, appena sconfezionate. Ovali e belle rosate ancora da spianare, con tanto di marca in rilievo.

 

Il tutto in un pessimo contrasto ottico in mezzo a quella marea di insipido nocciola. L’insieme era un qualcosa di veramente insopportabile, accappatoio compreso.

 

Alla fine della serie di riscontri e successive valutazioni, era incazzato nero.

 

- Vaffanculo. - Urlò e si gettò nudo sul letto singolo, facendo svolazzare il lenzuolo. Poi si rigirò stravaccandosi pancia all’aria.

 

Un bel vaffanculo detto con tutto il cuore è, per le incazzature, molto meglio di un cachet per il mal di testa. Si ritrovò con questo sentito pensiero mentre la calma tornava quasi per incanto. Questo era il massimo della sua filosofia, ma l’efficacia era fuori discussione.

 

L’orologio a cristalli liquidi sul comodino segnalava le ventidue, con uno sfolgorare rosso acido che infastidiva gli occhi. Raoul guardò fuori, era buio.

 

La luna crescente si stagliava chiara come una stampa di Mavecs nel cielo limpido e stellato. Appena una strisciolina, in basso, veniva tagliata alla visuale dalla sagoma del tetto dell’edificio di fronte, una casa bifamiliare vecchio stile a due piani.

 

La facciata era costruita completamente faccia a vista. Costruzioni del genere, dopo il tramonto non erano altro che pareti nere, senza un minimo di riflesso luminoso che ne interrompesse la noiosa geometricità.

 

Raoul tornò a sedersi sul bordo del letto, accendendo la radiolina a fianco dell’orologio. Era già sintonizzata su un qualche canale in FM subito dopo i 105 megahertz. Abbassò il volume fino ad ottenere un suono di sottofondo, poi si stese, cercando di rilassarsi al massimo. La musichetta sconosciuta e incomprensibile, solamente strumentale, risuonava nel silenzio della sera come un rumore qualsiasi di contrasto. Si sentiva stanco.

 

Osservando nuovamente l’orologio e vedendo l’ora tarda segnata, parve rendersi conto della stanchezza in un colpo solo, e faceva caldo. Troppo caldo.

 

Si addormentò mentre tentava di percepire la musica, che andava affievolendosi gradualmente come un passaggio di nuvole bianche in un azzurro cielo estivo.

 

Raoul si svegliò bruscamente, mettendosi a sedere sul letto ad occhi completamente spalancati.

 

Era in un mare di sudore, con il lenzuolo inzuppato fino all’anima ed appiccicato addosso. Se lo avesse strizzato avrebbe potuto riciclare acqua sufficiente a farsi di sicuro una doccia completa.

 

Strana sensazione quella che provava in quel momento. Era totalmente sveglio, niente palpebre pesanti, non un filo di sonno. Niente. Ricettivo e raziocinante al cento per cento, come un radar. Nervoso e puntante meglio di un setter da caccia.

 

La sveglia sul comodino indicava un bel 23.59, sempre di quel rosso luminescente e fastidioso. Le piccole barre a cristalli erano una croce per gli occhi appena spalancati.

 

Raoul aveva la gola arsa ed il caldo era afoso ed oltremodo opprimente. Si ritrovò ad ansimare leggermente e a deglutire a vuoto per reprimere una sensazione quasi dolorosa.

 

Si alzò e andò in bagno. Dei due rubinetti aprì quello di destra, segnato in azzurro alla sommità e quindi in teoria quello dell’acqua fredda, con la speranza vana, sentita l’afa, che fosse tale. Si spruzzò la faccia rapidamente e poi, unendo le mani a coppa, se ne servì per bere come ad una fontanella da parco pubblico. Era tiepida e oleosa ma servì allo scopo.

 

Lasciando una scia bagnata al suo passaggio ritornò in zona letto, dirigendosi verso la finestra con l’intenzione di spalancarne le ante, alla ricerca di un po’ di aria fresca, già ben sapendo che era anche questo un lavoro inutile.

 

Notò la luna che era posizionata poco sopra il falso orizzonte, diritto come una riga da disegno, che altro non era che il tratto rabbuiato del tetto della bifamiliare. Un che di magnetico, con quella forma in cielo, catalizzò totalmente la sua attenzione.

 

Aprì le ante, e appoggiati i gomiti sul marmo liscio del davanzale rimase a fissare l’iridescente astro, nonostante la sua incompletezza. Lo attirava il suo magico splendore, circondato di riflessi puri e da stelle lontane, come tante lucciole attorno ad una lampadina, in un beato silenzio interrotto solamente dal frinire, attenuato dalla lontananza, di alcuni grilli chiacchieroni.

 

- Sarà piena tra quattro o cinque giorni. - Pensò, e intanto non poteva fare a meno di cercare particolari nella doppia aureola irregolare che la circondava.

 

- Perché? -

 

Si riprese di botto, come se si fosse d’un tratto liberato da un’ipnosi inconscia. Non gliene era mai fregato un cazzo della luna, né tantomeno di quando diventava piena. Perché adesso sì? Si chiese interdetto.

 

Una sagoma scura di ridotte dimensioni si mosse alla destra sopra il tetto, riportando la sua attenzione in quella direzione.

 

Un gatto!… Ipotizzò immediatamente, scrutando i contorni della figura nera sullo sfondo blu e studiandone i movimenti lenti e felinamente aggraziati. Raoul si spostò all’indietro senza pensarci, andando a sbattere con una caviglia contro la sponda del letto, perdendo l’equilibrio e finendo carponi sbattendo violentemente le ginocchia sul pavimento. Al dolore acuto tentò di bestemmiare ma le corde vocali non ricevettero il messaggio alla perfezione e ne uscì soltanto un gorgoglio indistinto.

 

Girando involontariamente la testa a seguito dello scontro fortuito, vide la poltroncina bassa sepolta sotto i suoi vestiti. Partì deciso rialzandosi, dimentico delle botte ricevute. Scostò i pantaloni e la camicia che scivolarono a terra, la prese e la accostò al letto sedendovici sopra e incrociando le gambe, riprendendo ad osservare fuori come se niente altro importasse.

 

Intanto il gatto non si era mosso più di tanto. Si era comodamente accovacciato sulle zampe posteriori ed aveva preso a leccarsi con cura, indifferente pareva, a tutto ciò che lo circondava. La finestra somigliava vagamente ad un quadro d’autore e le ante aperte, con il cassone sopra e sotto il davanzale, ne formavano la particolare cornice.

 

Gli occhi di Raoul si erano ormai abituati al notturno fiocamente illuminato, e seduto in quella posizione, non era per niente diverso da uno spettatore attento davanti ad un televisore.

 

Il tetto era delimitato da una linea retta orizzontale e formava quasi un figura unitaria, occupando il quarto inferiore di tutta l’immaginaria tela, adombrato in uno scuro compatto con alcuni lampi neri e rossastri che delineavano qualche incastro malriuscito tra tegole. Gli altri tre quarti della composizione erano occupati da una base di completo cielo corvino, punteggiato di piccolissime lucine fisse e tremolanti. Andava dall’esterno ad azzurrarsi appena attorno all’astro non proprio rotondo, gli mancava ancora una fetta, fondendosi in diverse tonalità decrescenti al bianco illuminare dei raggi riflessi, andando a formare, in uno spazio strettissimo, un paio di cerchi ovalizzati non ben definiti. L’Orsa Minore, in alto a destra, si stagliava riconoscibilissima nella sua familiare figura di carro.

 

Spostata a sinistra rispetto all’asse centrale del quadro, la luna si comportava da protagonista un palmo sopra la linea del tetto, con crateri e rilievi leggermente più opachi, incastonati a creare disegni ed immagini strane, quasi surreali.

 

Quella del gatto all’invero, dalla parte opposta, era una figura nera e distinta, lunga alla pari del diametro lunare; un nero veramente pieno, solidissimo. Più reale che mai nella sua esternità alla scena, come uno spettatore all’opera, in prima fila, posti centrali.

 

Raoul si rese conto di quanto fosse anomalo il suo comportamento, ma non riusciva a far altro che starsene lì a guardare.

 

Doveva e voleva restare a guardare. Il perché non importava, al momento. La catarsi era totale. In quella specie di ipnosi indotta lo scorrere del tempo perse importanza assumendo un che di deflusso irreale, come se si trovasse a divagare alla porta di un sogno. Un sogno stranamente realizzato.

 

Il gatto tornò a rizzarsi sulle quattro zampe e si stirò lentamente, come se si fosse appena risvegliato da uno dei tanti pisolini giornalieri. Prese mellifluamente a percorrere il tetto da destra a sinistra in direzione della luna, la quale, appena sopraelevata di un dito rispetto alla posizione di prima, pareva dovesse sbarrargli la strada ed impedirgli di passare, costringendolo a tornare sui suoi passi.

 

La scena non più statica scosse di un minimo Raoul, ricordandogli con un flash-back, le ombre in lento movimento dei teatrini cinesi.

 

Ancora qualche passo lento e sornione ed il gatto fu praticamente a ridosso della luna. Si fermò e compì un gesto che fece sorridere Raoul, in quello che non era altro che un’assurdità generata da una sovrapposizione di due oggetti a distanze diverse. Come quando i cani abbaiano alla propria ombra, il gatto figurava annusare il fondo della luna, chino con le zampe anteriori raccolte pareva stesse valutando di infilarsi nello stretto e prospettivo spazio tra la stessa ed il tetto.

 

L’ilarità gli scemò di colpo subito dopo, venendo meno con il medesimo effetto di un calcio preso nelle palle. Un senso abnorme di angoscia e allo stesso tempo paura la sostituì mescolandosi all’attimo di sorpresa.

 

- E’… impos… ssibi… le -, non riuscì a dire, mentre l’aria gli usciva di scatto dai polmoni. Il gatto aveva piegato anche le zampe posteriori e spiccato un brevissimo balzo verso l’alto, andando a poggiarsi con tutti e quattro gli arti sul dorso della luna. Raoul era rimasto sgomento, occhi fissi e bocca spalancata.

 

Il gatto rimase in quella posizione un attimo e poi ridiscese ancora sul tetto, alla sinistra. Tutta la scena come se la luna fosse stata, non in prospettiva e distante ma proprio come appariva all’occhio, appena pochi centimetri sopra la linea del tetto.

 

Un senso di costrizione al petto, dalla parte del cuore, appiattì Raoul sulla poltrona. Le tempie pulsarono furiose per alcuni secondi. Poi, gradualmente, il dolore e il martellare si attenuarono entro limiti accettabili per poter nuovamente ragionare o perlomeno tentare.

 

La sensazione che rimase fu di un disagio immane ed impensabile. Pensò subito fosse stata soltanto la sua immaginazione, la causa, frutto sicuramente della tensione e dello stress accumulati durante la giornata precedente, oppure allucinazioni da calore. Si aggrappò all’idea con convinzione maniacale, perché, in caso contrario, significava che stava diventando pazzo.

 

Vide il gatto, che nel frattempo era rimasto fermo un paio di minuti ad osservare la luna, ripartire a passo affrettato. Se ne rese conto mentre stava scomparendo sul lato nascosto del tetto, sempre alla sinistra.

 

Tutto scemò come per incanto. Il senso di realtà si affermò di botto come lo sparo di un fucile.

 

Raoul si accorse di avere il battito cardiaco ancora leggermente accelerato e di essere madido di sudore. In compenso, il sonno lo stava assalendo rapidamente come se non avesse più dormito da tempi ormai immemorabili. Si alzò dalla poltrona, la forza appena sufficiente a scostarla di lato e si stese sul letto. Non riuscì ad azzardare un’altra benché minima pensata che era già sprofondato nell’oblio più completo.

 

Il risveglio fu a causa dell’interfono.

 

Raoul ci mise più di qualche secondo a riprendersi, fare mente locale e ricordarsi che aveva detto al portiere di farsi chiamare alle sette e mezza. Zittì il telefono alzando la cornetta e biascicando un incomprensibile ‘va bene, grazie’ al ricevitore.

 

Il ricordo fulminante! Del sogno?

 

‘Di che cosa sennò’, fu il pensiero logico.

 

La finestra era spalancata e la poltrona appoggiata con lo schienale in fondo al letto. Chiara e vivida ripetè la scena passo passo. Non poteva essere che un sogno, o meglio un incubo. Troppo irreale, ma…

 

Sentì il rubinetto gocciolare, con suono smorzato dalla porta socchiusa. Andò verso il bagno accorgendosi strada facendo che era completamente nudo. ‘Come diavolo aveva dormito? Era forse sonnambulo o che altro?’ Entrò in bagno, con la tempia destra che iniziava a dare qualche pulsazione dolorosa.

 

Con una lieve stretta alla manopola il rubinetto smise di perdere e, con il mal di testa che si ritraeva e la mente ancora indecisa se i suoi ricordi fossero stati falsi o reali, incubo o verità, si apprestò a fare una doccia. Sarebbe stata sicuramente salutare.

 

Mentre il getto d’acqua tiepida lo investiva, le ultime nebbie del sonno si diradarono e un odioso odore di lavanda gli stuzzicò fastidiosamente le narici, la realtà di un’altra giornata che stava per compiersi prese forma.

 

- Che sogno del cazzo. - Disse, già abbastanza incavolato per poter difficilmente iniziare in modo proficuo la mattinata.

 

Nel giro di una decina di minuti era pronto. Sbarbato, pettinato e vestito di tutto punto. Pantaloni color caki, camicia bianca, cravatta marrone strisciata di bianco con l’aquila stilizzata di Armani a dare il tocco di classe al professionista.

 

Dalla valigia più piccola estrasse una serie di fogli con nomi e indirizzi. La lasciò sul letto sfatto, aperta e straripante di depliant e cataloghi. Prese a passare i fogli e a ricomporli con un certo ordine.

 

Non ci mise molto a programmare il giro di lavoro, aveva a disposizione altri quattro giorni più il sabato mattina per completare la zona iniziata il giorno prima. Era ormai al terzo passaggio negli ultimi cinque mesi ed aveva abbastanza in chiaro l’ubicazione di tutti i meccanici, carrozzieri, gommisti, elettrauto e autosaloni, nonché rivendite cicli e negozi di forniture meccaniche. Tutti potenziali clienti. Non molti comunque, in questa parte di Pianura Padana a ridosso del fiume Po, giusto al confine tra le due regioni, Veneto ed Emilia Romagna.

 

Aveva già deciso di fare per primi i paesi che fiancheggiavano il fiume, tutti collegati dalla stessa strada provinciale e di inoltrarsi poi per le laterali verso i paesetti più interni i giorni seguenti.

 

Raccolse le sue cose ed uscì dalla camera. La chiuse a chiave e si avviò giù per la scala con la borsa in una mano e la giacca ( sempre in tinta con la camicia, di un color caki un po’ più scuro per non stonare con l’accostamento ) nell’altra, tenendola per l’appendiabiti. Raoul la osservò malevolmente e si chiese perché cavolo continuava a portarsela appresso in piena estate, mettendola in bella mostra appesa al prendimano posteriore della macchina.

 

Sì. Era necessario, constatò. La giacca era lo status symbol, la tessera di riconoscimento del rappresentante serio. Non pecoraio! Rappresentante nel vero senso della parola, quello di prima categoria, con la R maiuscola; con due palle così in fatto di vendite. Altro che storie. La giacca appesa, concluse, serve per distinguersi dai dilettanti e dagli arrabattini.

 

E così dicendo affrontò con fierezza di casta le ultime due rampe corte di scale, arrivando dal primo piano all’atrio d’entrata. Passaggio veloce e un cenno ancor più rapido con la testa a salutare il portiere.

 

Era un altro o sempre lo stesso? Sembrava più vecchio quello di ieri sera… ma chi se ne frega, tanto i portieri sono tutti teste di cazzo uguali. Fu la seconda, utilissima constatazione giornaliera, dopo quella della giacca. Almeno a suo parere.

 

L’auto era rimasta al sole e nonostante si fosse ancora ad inizio di mattinata, l’interno aveva di già la tendenza ad assomigliare ad un forno crematorio.

 

Raoul si mise al posto di guida dopo avere depositato la valigia sul sedile posteriore e dopo aver appeso la giacca alla maniglia in alto, dalla parte opposta alle sue spalle. Si chiuse dentro, accese il motore ed il condizionatore già puntato a venti gradi prese a ronzare per l’ennesima volta dall’inizio dell’estate. Aprì la valigetta e ne estrasse il plico con gli indirizzi. Guardò il primo. "PNEUTEST SNC di Lupato e C. – Via Maffei 812 STIENTA ( RO )."

 

La mattinata non fu granché proficua, ma comunque neppure da buttare. Aveva piazzato un paio di set completi di utensileria e preso alcuni ordinativi, perlopiù campionatura di prova.

 

Era giunto ad oltrepassare un cartello che indicava la località. C’era scritto ‘SALARA’ in bianco sporco su fondo blu stinto, mimetizzati sotto qualche migliaio di puntini di ruggine. Poco dopo svoltò a destra abbandonando la strada provinciale, con l’intenzione di compiere un giro di paesi a cerchio fino a tornare al punto di partenza a fine giornata lavorativa. Aveva cambiato il programma di giro avendo trovato alcuni esercizi chiusi, optando per effettuare una seconda tornata entro la fine della settimana.

 

Si arrabattò per il pranzo nel primo locale che riuscì a rintracciare e tirò sera dopo aver visitato un’altra decina di indirizzi, quasi tutte officine e concludendo affari non molto più proficui di quelli del mattino.

 

Oramai sera, erano le sette e mezza passate abbondantemente, con il sole che si apprestava a scendere dal suo piedistallo immaginario, si avviò sulla strada del ritorno. A quell’ora non lavorava più nessuno e con negozi ed officine chiuse era inutile continuare. In quindici minuti sarebbe giunto di nuovo all’albergo.

 

A Raoul queste trasferte settimanali proferivano lo stesso effetto di una mini naja. Come le giornate tipiche da servizio di leva erano lunghe, pesanti e traumaticamente noiose.

 

Non che quando era nel target normale e tornava a casa tutte le sere ci fosse qualcosa di particolare o qualcuno ad aspettarlo, ma almeno era a casa e poteva rilassarsi in qualche modo. Bastavano una birra, in divano e un po’ di televisione. Nel suo ambiente domestico riusciva comunque a rilassarsi in ogni caso.

 

Durante i ‘pellegrinaggi’, così definivano i suoi colleghi più vecchi le trasferte di quel tipo, e anche lui oramai si era abituato a chiamarle in quel modo, a fine settimana accumulava una carica nervosa tale che se fossero riusciti a sfruttarla in qualche modo come energia, si ripeteva spesso, sarebbe stato di certo un bene per l’umanità. E un sacco di soldi per lui, non mancava mai di aggiungere.

 

In pratica non vedeva l’ora che la settimana passasse, giorno dopo giorno, estenuante, vivendo per sei interminabili giorni in una specie di stato catatonico ed in continua attesa. Perdipiù vendeva anche meno, perché già dopo il primo giorno la verve che di solito lo contraddistingueva veniva a mancare inderogabilmente.

 

Parcheggiò l’auto nel medesimo spazio del giorno prima riservato ai clienti, poco distante l’accesso principale dell’albergo.

 

La giacca era ancora stirata ed inusata, appesa al solito posto. Appena fu sceso dalla macchina la staccò dalla maniglia e la prese insieme alla valigia, immergendosi di malavoglia nell’afa serale. Aria pesante e umida come poche. Roba da branchie.

 

Entrato nell’albergo, dopo uno scambio rapido di saluti formali col portiere, lo stesso di quando era arrivato il giorno prima, ed aver ritirato la chiave della stanza, si soffermò ad osservare senza troppo interesse l’ambiente della reception. La sera precedente non ne aveva avuto né il tempo né la voglia. Non che fosse obbligatorio, è ovvio, ma un minimo di curiosità…

 

Non notò niente di particolare. Oltre all’entrata non troppo grande, con l’arredamento a motivo di base rigorosamente in legno scuro lucidato e materiali il più similari possibili, vi era solamente un piccolo salottino d’attesa, infossato in una specie di atrio diviso da un’arcata bassa, alla sinistra delle scale inmochettate in rosso porpora. Dall’altra parte, alle sue spalle, una porta beige con il cartello ‘RISERVATO’ stampato a caratteri cubitali e, quasi di continuo, un’altra a soffietto che prendeva mezza parete e fungeva da divisorio dalla sala da pranzo.

 

Raoul si distrasse ad ascoltare la notizia, al telegiornale in onda su Canale 5, di un aereo jet schiantato in Sud America su di un qualche picco delle Ande dal nome lunghissimo che non riuscì a memorizzare. L’immagine nel video mostrava, in uno sfocato documento di repertorio, un tipo di aereo uguale parcheggiato in un aeroporto metropolitano.

 

- Quando non sanno che cazzo dire vanno sempre a ripescare qualcosa dal repertorio di qualche secolo prima. - Commentò con un filo di voce, ormai disinteressato.

 

Notò, sotto il televisore poggiato in alto su di una mensola grande abbastanza da tenerne tre, un qualcosa di appeso e multicolore di forma regolare. S’incuriosì. Avanzò di qualche passo per poter distinguere meglio.

 

- Frate Indovino. - Affermò soddisfatto alla conferma del suo sospetto. Era un calendario, molto più pittoresco ma pur sempre un calendario. Stipato in un contesto di dati, curiosità, frasi celebri, aneddoti e proverbi, oltre al solito immancabile migliaio di Santi, Papi, Martiri e Vergini.

 

Gli venne a mente la luna, la sera prima. Gli apparve con il medesimo effetto di una fucilata. Si avvicinò alla parete, dove il calendario era appeso ad altezza d’uomo.

 

Nel frattempo il giornalista alla televisione stava parlando di oltre cento vittime nell’incidente aereo, ma anche se avesse detto che i morti erano mille, centomila o un milione, Raoul non l’avrebbe udito lo stesso.

 

- Oggi. Stasera. 1, 2, 3 -, con il dito indice scorse la datazione di luglio posta in un striscia verticale sul lato sinistra della pagina stracolma di disegni e finestrelle con notizie e aneddoti di ogni tipo. Il cerchietto della luna piena, tondo, bianco e con una faccia sorridente in mezzo era proprio lì.

 

- Ancora tre giorni. - mormorò.

 

Era disagio? Paura? O solamente il caldo afoso che seccava la gola?

 

Cercò di scacciare quella fastidiosa sensazione ed immaginò la pioggia. Una pioggia torrenziale che lava via il fango dall’asfalto, che pulisce e purifica con la sua irruenza naturale.

 

Fu un attimo e prese la decisione. Avrebbe trascorso fuori la serata, era troppo nervoso e teso per starsene chiuso nella stanza a pensare alla luna piena… o ad uno stupido gatto. Ancora ci pensava?

 

Salì rapidamente le poche scale ed entrò in camera sua. Nel giro di un quarto d’ora era lavato, vestito, rinfrescato e pronto ad uscire. Un altro paio di minuti per scendere, saltare in macchina e partire. Sgommando, sollevò una fugace nuvoletta di polvere bianca dall’asfalto, ancora ardente da una giornata di sole infuocato.

 

Dopo un chilometro di strada percorso in una ripresa ad alta velocità, per non dire folle, Raoul iniziò a rilassarsi. Stava sudando abbondantemente mentre i pensieri tornavano a scorrere in modo normale.

 

Quand’è che aveva spento il condizionatore? Cosa gli era successo in quell’ultima mezz’ora? Si trovò a chiedersi. Possibile che fosse diventato così impressionabile? Per che cosa poi…

 

Forse, pensò, ultimamente aveva lavorato troppo e quella trasferta in quella merda di zona depressa di ex paludi bonificate non era stata per niente un toccasana. Bisogno di ferie? Macchè! Non gliene era mai fregato più di tanto delle ferie, a lui piaceva lavorare. Viaggiare e concludere affari, piazzare contratti, convincere clienti a comprare ed acquisirne di nuovi. ‘Stress!’ Ecco la soluzione. La causa di ogni problema, di ogni male di quest’era di progresso e benessere. Era lui il colpevole di quelle visioni. ‘Sissignore. Visioni!’ Lo ‘stress’. Parola quasi magica ad indicare il ‘nemico’ della sua sanità mentale. E il suo, di stress, era particolare. Uno stress economico.

 

Gli sfuggì un sorrisetto traverso, ora che aveva logicizzato il suo stato emotivo. ‘Stress da guadagni ridotti’, ‘Sindrome da mancanza di entrate’, ‘Psicosi da fame di euro’. Si ritrovò a ridacchiare in uno stato di eccitazione ed ilarità positiva.

 

- Quando si conosce il proprio nemico si può dire di averlo già praticamente sconfitto. Qualcuno una volta deve averlo detto. - Concluse Raoul ad alta voce, scandendo e intonando le parole come un narratore professionista leggerebbe un poema epico.

 

Con lo stesso effetto immediato di un’aspirina o di un qualsiasi placebo contro il mal di testa, quelle parole erano il finale di un’autoterapia psicologica ad effetto immediato. Ora si stava veramente rilassando. Comunque, concluse, gli serviva una pausa o perlomeno una distrazione.

 

Raoul prese a programmare la serata, per vincere lo stress, micidiale avversario, come uno stratega imposta una battaglia campale. Un’ottima ed abbondante cena in un locale con aria condizionata tanto per cominciare e poi al cinema. Un bel film d’azione con almeno una quarantina di morti ammazzati.

 

Nessun problema. Ferrara era a 15 chilometri e la conosceva abbastanza bene, sapeva già dove andare ed era ormai a metà strada. In quel momento infilò il ponte che attraversa il grande fiume, il Po.

 

Ne vide l’acqua, torbida ed in rapido movimento, ad una ventina di metri sotto, oscurata e striata di rosso e arancio dal calare del sole all’orizzonte.

 

L’immagine veniva interrotta, senza però togliere nulla del suo fascino di grandezza naturale, dallo scorrere delle travi di ferro, opache ed un po’ arrugginite, della struttura superiore del ponte. Sembrava di vedere una pellicola da film fotogramma per fotogramma.

 

- Arrivo Ferrara… -

 

Raoul infilò la chiave nella toppa della serratura. Aveva appena guardato il suo orologio da polso ed il quadrante illuminato gli aveva lasciato scorgere a fatica le ventitre e trentadue.

 

La serata trascorsa a mente libera si era rivelata più che positiva per calmare i suoi troppo eccitati gangli neurali, equilibrare gli sbalzi d’umore ed azzerare tutte quelle scariche improvvise di adrenalina. Era veramente rilassato anche se piuttosto stanco. Il caldo era stato magnanimo e lo aveva lasciato vivere in modo decente.

 

Senza fretta, in una ventina di minuti si preparò per affrontare la nottata, stavolta indossando i boxer, in più rispetto alla ‘mise’ della notte precedente. Si coricò e si accese quella che avrebbe dovuto essere l’ultima sigaretta della giornata.

 

Due minuti dopo, mentre la spegneva un rumore improvviso, di qualcosa contro il vetro della finestra, per poco non gli provocò un infarto. Guardò atterrito.

 

Un gatto nero era sul davanzale e stava strofinandosi pigramente all’incrocio dei legni dei due telai esterni di destra.

 

Raoul spalancò gli occhi da far concorrenza agli abbaglianti di un Tir e scattò come una molla con l’adrenalina alle stelle, rovesciando il posacenere che aveva appoggiato sullo stomaco. Lo mandò a frantumarsi sul pavimento in una miriade di pezzettini e microscopici frammenti mescolati a cenere. Il mozzicone spento finì a ridosso del muro sotto la finestra. Il tutto scaturì in una specie di trambusto esagerato rispetto all’esiguità del fatto. Ma la paura si sa…

 

Spaventandosi, il gatto trasalì scattoso, bloccandosi poi ad occhi spalancati per gettarsi subito dopo, con un rapido tuffo, verso il punto da dove era apparso e sparì come se avesse imboccato una strada adiacente. Se vi fosse stata.

 

Ansia e paura rabbiosa, come in un calderone da strega, riportarono Raoul all’angoscia della serata precedente.

 

Spalancò la finestra. Un gesto più per disperazione che dettato da coraggio. Sporgendosi, guardò nella direzione verso la quale il gatto si era dileguato. Ciò che vide gli pose subito su basi realistiche il susseguirsi degli eventi, riportandolo alla calma di botto e facendolo propendere ad una risata semi-forzata.

 

Un albero di una dozzina di metri d’altezza era sito nel giardino sottostante, spostato di cinque o sei metri lateralmente rispetto alla sua posizione. A metà circa del grosso tronco, uno dei rami si stendeva con le ultime diramazioni fino ad una ventina di centimetri appena sotto la sua finestra. Raoul si trovò, stranamente per lui, a pensare a che tipo di albero potesse essere, con quelle foglie larghe e grosse simili a quello del fico, ma più lisce e frastagliate. Proprio lui che non se intendeva per niente. Lo aveva chiamato pioppo, ma era anche l’unico nome d’albero che era riuscito a focalizzare.

 

- Che razza di assurdità sto pensando. - Disse con un filo di voce roca e la bocca ancora impastata dall’aspro fumo di sigaretta.

 

Captò con l’occhio un che di movimento. Si voltò verso il tetto. Era là… il gatto.

 

Raoul si mise a piangere.

 

Tutto si svolse esattamente come la sera precedente, tranne che lui rimase lì, imbambolato davanti alla finestra ed il gatto, una volta saltato in groppa alla luna, vi rimase per un po’ più di tempo. L’animale sembrava rispondere allo sguardo di Raoul, ma il suo di sguardo, era diverso, speciale, particolare… occhi ipnotici nella loro forma ed irreali nei riflessi bianchi e azzurri, e veritieri e tangibili in quanto a generare paura a chi li osservava.

 

Il mattino dopo Raoul si risvegliò nel proprio letto, agitato, spaventato e soprattutto confuso. La solita sensazione da incubo appena svanito ma ancora pienamente presente.

 

Ripensò immediatamente alla fatidica parola: stress. Ma era proprio questo il suo problema o invece stava impazzendo? È così terribile la pazzia oppure… potrebbe non essere pazzia.

 

Come diceva Arthur Conan Doyle in Sherlock Holmes, si ricordò di averlo letto quando ancora era un ragazzino gracile e brufoloso e la frase lo aveva colpito veramente nella sua logica essenzialità, ‘scarta tutte le soluzioni impossibili e ti rimane solamente quella possibile.’ Più o meno era quello il suo significato. Allora, forse, poteva essere tutto vero? Qualcosa di sovrannaturale stava incrociando la sua strada? No, non ci credeva. Non ci aveva mai creduto. La razionalità gestisce la vita, il resto è fantasia. Sherlock l’avrebbe pensata uguale. Qual’era allora la verità? Scarta l’impossibile… cosa resta…?

 

I suoi pensieri rimasero solamente un turbinare continuo di idee confuse e immagini distorte. Le sensazioni al risveglio hanno sempre qualcosa di strano, inverosimile e reale allo stesso tempo.

 

Decise che appena si fosse ripreso ci avrebbe pensato su… forse. Chissà, qualcosa poi l’avrebbe dovuto fare per forza.

 

- Vincere o morire… vincere o morire… - Sbucata fuori da qualche recesso di memoria la frase si ripeteva nella sua testa. - Che film era? - si chiese. La stava prendendo per il verso giusto. L’adulto, venditore di professione, aveva preso il sopravvento su tutte le varietà di comportamento, reagendo con sagacia e scacciando le assurdità che gli stavano invadendo la mente. Aveva optato al non pensarci più, e ci riuscì. Si addormentò ma non fece sonni tranquilli, per niente.

 

Raoul avanzò per altri cinquecento metri guardandosi in giro a cercare un ristorante, una locanda, un bar o perlomeno qualcosa che gli somigliasse. Era già un po’ che cercava. Decise per il primo posto che gli capitava davanti, tanto per cambiare.

 

Lo stomaco brontolava come una gomma forata. Però già sapeva che appena sceso dalla macchina l’appetito sarebbe sparito. Faceva sempre troppo caldo.

 

Dall’insegna con scritto ‘panini-toast-piadine’ comprese che era un bar, anche se non si sarebbe distinto da una casa qualunque senza quel riferimento specifico.

 

- Se non c’è altro… - si disse - oggi questo mi tocca. -

 

Rassegnato, parcheggiò proprio sotto l’insegna, rimanendo ad una decina di metri dall’entrata. L’orologio sul cruscotto indicava le dodici e quarantacinque.

 

Doveva passare almeno un paio d’ore in quel bar. Era una sosta forzata, motivata dal fatto che prima delle tre, tre e mezza del pomeriggio nessuna attività avrebbe riaperto i battenti.

 

La fortuna gli aveva fatto trovare due belle ventole a soffitto che giravano con delle pale di almeno un metro a spezzare quell’atmosfera canicolare e umida. Inoltre, le due porte, una all’ingresso e l’altra sul retro di quello stanzone perfettamente quadrato, davano adito ad un discreto passaggio d’aria, incanalandola come in un tunnel esattamente attraverso la fila centrale di tavolini dove Raoul si era accomodato. Non era niente male.

 

L’appetito non se ne andò e, alla fine, dopo aver ingurgitato una piadina, due toast e tracannato almeno un litro di Coca Cola e un paio di caffè, si trovò a rimpiangere di non aver potuto affannarsi con un bel piatto di pasta cotta e condita come si deve.

 

Erano quasi le due, troppo presto per ripartire. Per ingannare l’attesa avrebbe letto il giornale sportivo, non appena il tizio calvo con l’aria da camionista l’avesse lasciato libero.

 

Intanto nel locale entrò un tizio con la tipica andatura e faccia del beone di professione. Raoul non poté fare a meno di notarlo, anche perché oltre a lui c’erano solamente altre tre persone, barista compreso.

 

- Inconfondibile tra mille come una mosca bianca in un porcile. - Commentò tra sé.

 

L’uomo dimostrava un’età attorno alla cinquantina. Aveva capelli bianchi, striati malamente di grigio. Non si comprendeva bene se era uno sbalzo di tonalità naturale o di sporcizia. Una serie di rughe parecchio marcate si distendeva su tutta la faccia abbronzata, ad incorniciare due occhi piccoli e spiritati ed una bocca regolare di tratto ma leggermente storta in un eterno e scalcinato sorrisetto. Una camicia a strisce bianche e azzurre, jeans lisi ed un paio di scarpe vecchie ed impolverate, in teoria di colore marrone, erano il suo trasandato abbigliamento.

 

- Il solito ubriacone cronico, - constatò contrariato, - come se ne trovano sempre girando per i paesi. - Aggiunse già più assecondante. Faticava a sopportare la presenza di questo tipo di persone. Non li odiava, forse perché anche lui ogni tanto amava ubriacarsi e pensava di poterli capire, ma rimanevano lo stesso un peso per la società.

 

Parassiti, diceva. Innocui ma pur sempre parassiti. Voleva restare indifferente ma nel frattempo non potè fare a meno di notare che nel complesso l’uomo aveva un non so che di diverso. Un’aria di nobiltà, decaduta questo è certo, ma pur sempre uno sprazzo, che vivido e chiaro scaturiva come un raggio di sole che s’infiltra furtivo in mezzo alla spessa coltre di nebbia.

 

L’ubriaco avanzò verso il bancone del bar senza curarsi del resto, con un modo di camminare simile ad un passo continuato di danza classica.

 

Raoul lo udì distintamente ordinare una birra e lo osservò mentre si fregava le mani, ansioso e a sorriso spianato. Non che fosse sua abitudine mettersi a spiare la gente ma l’ubriaco, entrando, aveva attirato l’attenzione su di sè in modo quasi magnetico.

 

Il barista gli posò, pochi attimi dopo, una caraffina da un quarto di litro ed in questa la birra superava in poco la metà dell’altezza. Il beone lo fissò con aria di rimprovero e iniziò a parlare conciso e chiaro, quasi sillabando le parole, rivolgendoglisi come un maestro di solito fa con un alunno scarso di comprendonio. Raoul captò chiaramente tutto il discorso.

 

- Nerone, non rompere. Bevi questa e poi vai fuori, te la offro io. Sei già ubriaco spolpo e non ti voglio avere qui dentro un’altra volta quando non riesci più a stare in piedi. - Il tono del barista era eloquente e deciso. Si capiva che non era certo la prima volta che succedeva.

 

Nerone gli sorrise. Raoul lo vedeva riflesso nella grande specchiera dietro il bancone.

 

Nerone continuò a sorridere mentre accennava di sì con la testa. Bevve la birra d’un fiato, con la mano tremante e continuando a muovere la testa e a sorridere. Posò il bicchiere, e sempre sorridendo gli propinò un ‘Grazie. Che tu possa campare cent’anni… e io di più’.

 

Si giro per avviarsi alla porta. Vide Raoul.

 

Fu come un colpo di frusta, il sorriso scomparve. Serrò la bocca e gli si avvicinò con movenze da felino ubriaco e gli occhi spalancati in uno sguardo da pazzo.

 

Raoul notò intanto che anche i due avventori, oltre al barista, seguivano perplessi ed interessati lo svolgersi della scena.

 

Quando Nerone gli fu ad un metro si abbassò velocissimo portando la sua faccia a dirimpetto della sua, ritrovandosela distante al massimo venti centimetri. La fiatata alcoolica era un qualcosa di eccezionalmente tremendo e stomachevole. Costrinse Raoul ad indietreggiare la testa fino a mettere in tensione all’estremo i muscoli del collo.

 

Nerone prese a parlare come se dovesse recitare una poesia.

 

"Un quarto di cento, ogni volta,
ripeteva il matto,
a caval della luna
se ne sta il diavolo, quatto,
per toglierle il cuore.
Nella forma di un gatto
a riscuotere l’anima,
a pagamento di un patto."

 

Si rizzò di un po’, lentamente con movimento reumatoide, fissandolo con occhi spiritati. Non mollò di un attimo lo sguardo. Fece un inchino e riprese, - la saluto signore, lei… -, si voltò leggermente verso la sinistra di Raoul, guardando dietro di lui come se vedesse qualcuno, - e la sua compagna che le sta alle spalle -, ripetè l’inchino. - La saluto Signora Morte. Anche se non posso dire che sia un piacere rivederla. -

 

Tornò alla posizione eretta e rifissò Raoul negli occhi, rigido cipiglio come due spade taglienti. - Spero che i suoi ultimi due giorni siano tra i più felici che abbia mai passato… ci credo poco, ma ho ritenuto doveroso augurarglielo. -

 

Stampò sulla sua bocca nuovamente il solito sorriso, a metà tra l’ebete ed il nobile e se ne andò. Prima che Raoul si riprendesse dalla sorpresa, Nerone era già sparito oltre l’uscita del locale.

 

Anche gli altri presenti alla scena erano rimasti sgomenti per l’avvenuto e, in silenzio, gli sguardi si incrociavano increduli e nel contempo dubbiosamente fugaci.

 

- E’ matto, lo scusi. - Il barista nel frattempo si era avvicinato a Raoul e gli si era rivolto con cortesia, rompendo l’atmosfera stranamente ipnotica che si era venuta a creare.

 

Gli altri due ripresero a parlare tra loro, uno dicendo che il Milan avrebbe rivinto il campionato e l’altro gli si affiancò ribattendo che era una squadra di merda e aveva avuto solo un gran culo, che erano solo all’inizio ed era ancora tutto da vedere. Continuarono su questo tono come se nulla fosse accaduto.

 

- Oh, non si preoccupi -, rispose automaticamente Raoul al gestore, - sono cose che succedono. -

 

Non era molto convinto delle sue parole, ma così liquidò il barista che tornò dietro il bancone e prese subito a lavare nervosamente un bicchiere.

 

Raoul rimase a pensare alle parole che Nerone il beone aveva detto, alla filastrocca. O una poesia… no, era una filastrocca, ne era sicuro. Ebbe un brivido freddo che gli attraversò tutta la colonna vertebrale come una scossa di terremoto.

 

Una mano gli si posò fermamente sulla spalla destra.

 

Sobbalzò, con il cuore che spingeva in gola per tentare di uscire. Girandosi vide che a compiere il gesto era stata una vecchia signora. Piccola, magra e con i capelli completamente bianchi. Ne incrociò lo sguardo triste e pietoso. Comprese subito che non era un problema di occhi, ma la pietà e la tristezza erano riservate a lui.

 

- Mamma! - Tuonò rabbiosa la voce del barista, - ti ho detto mille volte di non venire in bar… il fumo ti fa male. Torna di là. -

 

Raoul percepì il tremito della mano scarna della vecchietta ancora posata sulla sua spalla.

 

- Forza mamma, andiamo. - Il tono era adesso più conciliante, ma risuonava lo stesso come un ordine indiscutibile.

 

Il barista era scattato come un centometrista ed era arrivato in un baleno a dirimpetto dei due. - Scusi, ma sa… i vecchi come sono quando perdono…-

 

Raoul non rispose, quel sorriso gli puzzava schifosamente di falso.

 

Il barista prese la madre sottobraccio e insieme si allontanarono a passo lento, senza che la vecchia opponesse resistenza, verso la porta con sopra scritto 'riservato' alle spalle di Raoul. Questi, nonostante tendesse l’udito al massimo, non capì una parola di quello che il figlio disse all’anziana madre. Rimase ancora più perplesso e nel contempo confuso. Non se lo aspettava il gesto della vecchia ma era di certo molto più preoccupato di prima.

 

Passarono un paio di minuti prima che il gestore riapparisse a riprendere le sue mansioni come se nulla fosse accaduto. Forse per lui era una cosa normale, pensò, e subito dopo, sempre in preda ad un che di vago e scombussolato si decise a lasciar cadere la cosa. Si alzò, pagò ed uscì dal locale.

 

Il barista non alzò mai lo sguardo e mentre Raoul se ne stava per andare disse solamente un ‘grazie’ poco convinto e, in due tempi, un faticoso ‘arri… vederci.’

 

Gli diede la sensazione di essere una di quelle cose che si dicono nonostante si sia sicuri del contrario. Parole dettate solamente dall’etichetta, per norma, rispetto forse, saluto od occasione. Un turbinio irregolare di fatti accaduti, pensieri contorti e domande senza risposta gli si agitava indefinibile ed indecifrabile nel cervello sotto pressione.

 

Si avviò lentamente verso la macchina, scoprendola adesso in pieno sole e immaginando che razza di calore vi avrebbe trovato dentro. Estratta la chiave la infilò e si udì lo scatto d’apertura automatica delle portiere dell’auto quando, nello stesso istante, vide la vecchia signora di poco prima spuntare come per incanto da dietro il grosso cartellone pubblicitario della Coca Cola lì a fianco.

 

Ansimava terribilmente. - Saliamo in macchina e parta, - riuscì faticosamente a dire - prima che se ne accorga e arrivi mio figlio. -

 

Riprese fiato e continuò, - c’è una cosa che devo dirle. Una storia… deve saperla. Forza! La prego parta. -

 

La vecchia era stata convincente. Lui non fece commenti. La invitò a salire con un gesto della mano ed in risposta ebbe un accenno di sorriso.

 

Aprì la portiera e salì. La vecchietta fece lo stesso dopo che Raoul, dall’interno, gliel’aveva dischiusa fin dove poteva arrivare. Non ansimava più. Il calore accumulato nella vettura, intanto, oltre a soffocarlo lo stava facendo sudare, con i primi rigagnoli che gli scendevano dalle tempie.

 

La osservò un attimo… non sembrava poi così vecchia. Rispetto a prima stava dimostrando una straordinaria e speciale vitalità e non era pazza, i suoi occhi parlavano chiaro. Avviò l’auto e partì rapidamente.

 

Era di nuovo sera, con la luna ad un solo giorno dalla sua pienezza completa.

 

Raoul in un’altra occasione, qualsiasi altra occasione, avrebbe riso a crepapelle per una storia come quella che la vecchietta del bar gli aveva raccontato, ma stavolta non aveva riso per niente. Stavolta non vi era proprio niente per cui ridere. Era una cosa certamente assurda, aveva continuato a ripetersi per tutto il pomeriggio, eppure ci credeva. Eccome se ci credeva e ne era terrorizzato.

 

In quel marasma di pensieri paradossali e negativi stentava persino a riconoscersi. Lui, il grande ed imperterrito venditore, ridotto da un maledetto gatto nero e dalla storia raccontatagli da una vecchia signora ad un ammasso impaurito di carne e sangue, con i nervi tesi all’inverosimile da farlo incartare anche ad un normale suono di clacson. Rimbambito a tal punto da mollare il giro officine per andare a comprare una pistola da un suo vecchio cliente ex carabiniere, perdipiù un’arma illegale con il rischio di farsi arrestare se lo beccavano. E adesso, ad ogni attacco di panico, istintivamente impugnava la Beretta automatica che fungeva immediatamente da calmante molto meglio di un treno di Valium.

 

Terrore e incredulità si alternavano di continuo, creando, al caso, un’angoscia tremenda o una reazione rabbiosa. La sua mente funzionava come un’altalena poco oliata, dove il pensiero di base variava completamente nel giro di poco più di un nonnulla. Passando da ‘Credo’ al ‘Non credo’ come a voltare pagina e scatenando una reazione fino al punto massimo di sopportazione, tornando poi al centro neutro e andando poi al punto massimo opposto.

 

La tensione che si creava con questa oscillazione scricchiolante di umori e sentimenti era pericolosamente grande. Con l’ennesimo cambio Raoul si pose per l’ennesima volta la stessa domanda.

 

- Come può un gatto venire a strappare il cuore a qualcuno, nella notte di luna piena d’agosto ogni venticinque anni? -

 

Per l’ennesima volta la stessa conclusione logica. - E’ assurdo. È proprio senza senso. Mi stanno prendendo in giro i bastardi. -

 

- Ma chi? - si chiese, - chi può organizzare una cosa del genere. È impossibile! E perché poi? - La logica è logica e la paura è paura, e questa stava ritornando prepotentemente al comando, lasciando l’interno della sua testa alle prese con una totale anarchia di idee e pensieri.

 

Mancava un’ora a mezzanotte. Erano le undici e Raoul era ancora seduto in macchina davanti all’hotel, rinchiuso dentro e con il temporizzatore regolato a dodici gradi. Per controsenso sudava.

 

Aveva appena deciso di entrare, dopo aver litigato con se stesso, e chiudere il discorso.

 

Le possibilità dedotte erano due, o se ne fregava altamente di tutto propendendo per il fatto che erano tutte balle e superstizioni e si era solo lasciato prendere la mano, oppure sparava al gattaccio maledetto, spappolandogli la testa e finendola una volta per tutte con l’assurda faccenda della ricorrenza ogni cinque lustri.

 

Il suo carattere da praticone e miscredente riuscì finalmente ad imporsi a quella sconnessa alternanza. ‘4 o 5 pistolettate e vaffanculo al gatto’, riassunto del discorso e fine del problema. Prese la pistola e si bloccò ad osservarla, lucida e pesante.

 

- No! -, disse a denti stretti. Non era possibile, pensò, trovarsi oltre la soglia dell’anno 2000 e credere ancora al diavolo e al gatto nero con tanto di favoletta allegata.

 

La pistola se la mise in cintura, poi cambiò idea dandosi del fifone superstizioso. Ridepose l’arma nel cruscotto accompagnando il gesto con un sonoro ‘vaffanculo’. Scese, chiuse l’auto e si avviò deciso verso l’entrata dell’hotel, pochi scalini e dopo, aver mezza scardinata la porta, fu dentro.

 

Dopo aver chiesto ed ottenuto due pastigliette di una qualche specie di sonnifero dal portiere notturno, salì le scale di corsa e si chiuse in camera. Una rapida toeletta e fu disteso sul letto, indossando ancora i soli boxer e rimanendo preda del solito attacco dell’afa notturna.

 

Si levò di scatto come se avesse dimenticato qualcosa mentre i sonniferi stavano iniziando a sortire l’effetto desiderato. Spalancò la finestra con uno sferzante sogghigno stampato sulla bocca, osservò la luna per alcuni istanti fino a che, con gesto oscenamente volgare prima le mostrò il dito medio, poi si mise le mani in mezzo alle gambe iniziando a saltare ed inveire come uno scimmione nella foresta asiatica.

 

Un minuto dopo era a letto, finendo in men che non si dica in un sonno veramente pieno.

 

Raoul stava sognando di lavarsi la faccia in un catino. Smaltato e bianco, gli ricordava quello di sua nonna, tipo inizio secolo, su di un piedistallo in ottone a treppiede alto dal pavimento circa un metro. Il risveglio fu brusco, come se avesse ricevuto una scarica elettrica alle dita dei piedi. Percepiva un forte formicolio alle gambe.

 

Aprendo gli occhi si produsse in uno di quegli urli disumanamente fuori dal comune. Chiunque l’avesse udito avrebbe giurato che stessero spellando qualcuno vivo.

 

Due occhi neri per niente umani, luminescenti e dilatati ma non ancora rotondi, erano a non più di dieci centimetri dalla sua faccia.

 

A quella reazione scattosa di Raoul, dall’ammasso di pelo nero che circondava quegli occhi, subito sotto, spuntarono due file di denti bianchicci, sottili e acuminati, apparizione accompagnata da un sibilo rabbioso e da un odore impressionante da alitosi cronica.

 

Raoul era balzato in piedi di riflesso continuando ad urlare a squarciagola e mulinando le braccia istintivamente davanti a sè per difesa contro quel miscuglio di occhi, pelo nero e denti acuminati. Contemporaneamente un dolore lancinante accompagnato da un rumore che sembrava quello di un vestito strappato gli scaturì dalla guancia sinistra, estorcendogli un altro urlo ma di diversa tonalità.

 

Con due salti ed una rapidità solamente felina il gatto nero, adesso lo riconobbe per tale, balzò sul davanzale aperto della finestra e sparì all’esterno.

 

Raoul cadde in ginocchio, con il cuore che pompava a mille ed il respiro affannoso come un trattore ingolfato. I suoi battiti cardiaci gli risuonavano nella testa peggio di martellate su di un tamburo, e sudava freddo. Era fradicio.

 

Una fitta dolorosa gli fece ricordare la guancia. Si ritrasse al tocco delle sue dita che ora gli risaltavano davanti agli occhi tinte di rosso smeraldo. Rosso e caldo sangue. Sangue suo.

 

Un rintocco di campane in lontananza lo mandò con lo sguardo alla sveglia, per un istante. Indicava mezzanotte.

 

Si affrettò alla finestra, confuso, guidato solo dall’istinto… e lo vide; al solito posto. La sagoma nera del gatto ingrandita dalle ombre, poggiata in cima alla luna come su di una normalissima seggiola; luna ormai praticamente all’apice della forma, al massimo della visibilità. Insieme, in un’unica figura decisa, circondata da uno stupendo blu e luce che per lui significava solamente un immenso, immane, istantaneo terrore.

 

Raoul non aveva più chiuso occhio. Non si era addormentato nemmeno per un secondo che fosse uno, ed il sole era già alto da almeno un’ora lanciando i suoi raggi brillantissimi e fastidiosi, come solo d’estate possono esserlo, dentro la camera attraverso la finestra rimasta aperta dalla sera precedente. Una lingua luminosa e accalorata gli avviluppava mezzo piede destro a fondo letto. La presenza del giorno, iniziava solo adesso a dargli quel minimo di coraggio che impone alla ragione.

 

Lo stomaco balbettava ancora a tratti per la tensione subita ed il petto si alzava ed abbassava al ritmo forzato della respirazione.

 

Raoul s’impose di reagire. Si alzò e le gambe faticarono non poco a sostenerlo, anchilosate a rattrappite com’erano. La schiena, raddrizzandosi, mandò una serie di colpi secchi e dolorosi ed il collo non riusciva a ruotare per più di un paio di gradi a destra e sinistra. Notando il sangue rappreso e scuro che dalla sua spalla mancina si allungava fino all’incavo del gomito ebbe un sussulto nervoso in risposta ad un flash di paura.

 

Andò in bagno barcollando e ficcò la testa sotto il rubinetto, lasciandosi inondare il cervello dall’acqua stranamente fresca. Ci rimase almeno un paio di minuti. Servì per snebbiarlo e farlo ritornare gradualmente in sé, come se tutto il male accumulato scivolasse via al lavaggio similmente ad uno strato di sporco accumulato.

 

Rabbrividì vedendo allo specchio i cinque segni rossi sulla sua guancia. Cinque strisce che partivano da quasi all’orecchio arrivando ad un paio di centimetri dall’angolo della bocca. Parevano righe tracciate con una penna a punta fine. Sotto gli occhi, due borse enormi e scure avrebbero lasciato capire a chiunque che aveva passato una notte schifosamente in bianco.

 

Con gli ingranaggi mentali che riprendevano a funzionare, tentò di ricordare i brevi momenti lucidi in una notte di altalenante terrore, paura ed apprensione fino a giungere ad attimi estremi del più cupo orrore.

 

Era riuscito a pensare, ed era già un risultato, a qualcosa di positivo. Ad abbozzare un mezzo piano per togliersi da quella merda di situazione.

 

Non poteva andarsene, anche se lo avrebbe voluto con tutte le sue forze, doveva finire il lavoro o si sarebbe trovato sicuramente in guai grossi, in futuro. Ma avrebbe avuto un futuro? Si ritrovò a chiedersi.

 

Era più che convinto che la storia del gatto strappa-cuori fosse assolutamente vera. Era di certo un’assurdità peggiore della più balorda ed incredibile delle cose, ma sapeva nel più profondo della sua anima che era vera.

 

No. Non poteva scappare e rovinarsi futuro e carriera, nel modo più assoluto.

 

La soluzione non poteva essere che una, unica, sola ed inderogabile. O il gatto ammazzava lui o lui ammazzava il gatto… e con lui il demone che lo comandava. Demone o qualunque altra cosa fosse.

 

Se gli aveva lasciato quei segni in faccia e per salire in camera si arrampicava sull’albero significava, in maniera chiara e lampante che non era un fantasma o uno dei suoi tanti surrogati impalpabili. Era reale, materiale, e poteva colpire. Era materiale, e quindi si ‘poteva colpire’. Doveva solamente anticiparlo nel suo proposito, invertendo i ruoli.

 

A mezzanotte sarebbe finita. Avrebbe chiusi i conti, e con gli interessi per giunta, per pareggiare quello che aveva dovuto sopportare negli ultimi giorni. - Appena quel figlio di puttana tutto nero - si disse, - salterà dentro, gli spappolerò la testa a colpi di pistola. - Sorrideva malignamente all’idea e quel pensiero lo caricò come un cambio di pile a lunga durata al posto di quelle vecchie ed esauste.

 

La doccia prese a scorrere e vi si infilò sotto canticchiando. Lavò via con la più assoluta indifferenza il sangue coagulato che aveva addosso.

 

Imbastì il programma della giornata. Un giro veloce per i clienti fino a mezzogiorno e trenta, con grande spreco di depliant, biglietti da visita a promesse di sconti che non avrebbe poi mantenuto a causa degli ‘improvvisi’ aumenti da parte dei fornitori. Un buon pasto in un ristorante ed il ritorno in albergo per alcune ore di sonno.

 

Poi avrebbe atteso, pistola in pugno, quel coglione rompiballe qualunque cosa fosse sotto forma di gatto nero. Reale, tangibile. Di carne. Pronto per essere riempito di piombo fino all’osso.

 

Le ultime due ore erano state un qualcosa di mortalmente noioso.

 

L’unica cosa degna di nota nel quiz del purtroppo intramontabile Mike Bongiorno era la valletta, una biondina stupenda ed abbondante nei punti giusti.

 

La televisione nella saletta dell’albergo era stata monopolizzata da un gruppetto di giovanotte sulla media dei sessant’anni che blateravano in continuazione, stretto stretto con spiccato accento toscano. Un rumore di sottofondo costante che ricordava un esercito di grilli notturni in coro.

 

Raoul osservò un’altra volta l’orologio a muro posto a fianco del video. Indicava le undici esatte, alias le ventitre, alias un’ora alla resa dei conti. Gli si mescolò il sangue ed un brivido intenso lo percorse da capo a piedi facendogli quasi rizzare i peli sulla schiena dall’eccitazione, buona o cattiva che fosse.

 

Il caldo e l’afa erano già meno pressanti, pur restando la temperatura attorno ai trenta gradi e l’umidità ad un buon 70 per cento. Roba da gridare al miracolo in Pianura Padana, vista la norma.

 

- Che palle ‘sti programmi. -, piazzò lì la frase sbuffando annoiato. Si allontanò senza pensarci due volte.

 

Man mano che risaliva le scale, i pensieri di ciò che sarebbe seguito iniziarono a filtrare attraverso la cappa di indifferenza che si era creato a difesa fin dal mattino.

 

Afferrò la maniglia alla porta della stanza, con una nettissima sensazione di dover affrontare un duello mortale invece del semplice fatto di dover crivellare a pistolettate un gattaccio randagio imbecille. Entrò in camera e si richiuse dentro. Lo scatto metallico della serratura alle sue spalle risuonò vibrante e in modo fortemente evocativo. Quel suono ebbe l’effetto di un segnale, come un gong battuto ad iniziare un incontro sul ring. Gli parve di essersi lasciato dietro un altro mondo, di essere scivolato in una dimensione sconosciuta… in un sogno… in un incubo?...

 

23.05, gli indicò la sveglia sul comodino.

 

Raoul si tolse le scarpe e sbottonò la camicia arrotolandosi poi le maniche fino oltre il gomito. Si avviò verso la valigia più grossa, poggiata distesa sulla poltrona a lato del letto. La aprì, ne estrasse con deferenza la pistola. Bella, lucida, color acciaio. L’impugnatura nera, con una tematica di righe incrociate di traverso. Potente… mortale.

 

Caricò il proiettile in canna dopo aver tolto la sicura e la tenne in mano, parata davanti a sè verso la finestra, fissandola avidamente, carezzandola. Continuò così per un paio di minuti, poi la infilò tra cintura e pantaloni, sul davanti.

 

Rapidamente richiuse la valigia, la posò a terra e con un calcio la mandò a finire sotto il letto a tenere compagnia all’altra. Prese la sedia e si parò nell’angolo opposto alla finestra, di fianco al comodino.

 

Tutto quello che faceva somigliava ad un rituale magico o propiziatorio. Un susseguirsi di gesti infiniti, movimenti studiati e preparativi minuziosi. Andò a passi lenti e cadenzati a spalancare le ante della finestra, senza soffermarvisi per più di un attimo e ritornò infine a sedersi. Per fortuna era una poltrona e non una sedia, alla lunga molto più scomoda.

 

La sveglia, ben visibile, riluceva ormai familiarmente del solito rosso brillante dei cristalli liquidi, con un 23.33 che non diceva assolutamente nulla, al momento. Si preparò all’attesa…

 

… ma i minuti passavano lentamente. Troppo lentamente.

 

La tensione era aumentata a dismisura, tanto da farlo balzare dalla poltroncina con la Beretta puntata ad ogni minimo rumore. Il sudore gli calava copiosamente dalla fronte, abbastanza fastidiosamente da convincerlo ad andare a prendere un asciugamano dal bagno e costringerlo a tenerselo appoggiato sulle ginocchia. Ad uso continuo.

 

A non farlo distrarre ci pensava un caldo venticello, leggerissimo e variabile d’intensità che, oltre a tenere in costante movimento le fronde dell’albero antistante la finestra facendole strisciare sinistramente contro il muro, ogni tanto raggiungeva sufficiente forza per fare traballare le ante in un fremito continuo o con uno stridio fastidioso.

 

Mancavano altri dieci minuti alla mezzanotte. In un miscuglio tremendo di ansietà d’attesa e paura, Raoul faticava non poco a reggere la pistola e tenerne la canna, all'unisono con lo sguardo, puntata verso l’esterno inquadrando l’uscio della finestra spalancata.

 

La luna piena, immobile come un grosso saggio orientale, giocava coi riflessi strani e rilucenti sulla canna in acciaio, rimanendo nella solita pseudo-posizione ad una decina di centimetri sopra il tetto della bifamiliare di fronte.

 

Sussultò, quasi cadendo dalla sedia, vedendo apparire sul davanzale, dall’angolo in basso a destra della finestra, la testa nera e pelosa del gatto. L’adrenalina svolse il suo lavoro nel modo dovuto. Raoul ricordò di aver paragonato il tutto ad un quadro, la prima sera dal suo arrivo all’hotel… ora non era più così. Era più che mai reale. Nessuna impressione su tela o da stampa. Con lo sguardo fisso e impegnato non lo mollò un attimo.

 

Lentamente, cauto, il gatto avanzò sul piano in marmo svelandosi alfine completamente, fiero e compatto simile ad una pantera in miniatura; l’aria temibile. Circospetto e silenzioso come solo un felino può esserlo, posò le zampe anteriori sul radiatore e balzò all’interno della camera, atterrando con un tonfo sordo e rimanendo dietro al letto, nascosto alla sua visuale.

 

Raoul impugnò la pistola a due mani e rimase pronto. Appena quel porco muso nero si fosse arrischiato a spuntare fuori a lato del letto per avvicinarglisi, lo avrebbe ammazzato, fulminato sul colpo scaricandogli addosso tutto il caricatore, spiaccicandolo sul pavimento come marmellata di fragole. Fu il pensiero di un microsecondo, scaturito con rabbia incredibile seguendo quell’effervescenza psichica violenta dovuta alle scariche adrenaliniche che lo tenevano in costante tensione nervosa.

 

D’un tratto, due ovali lucenti gli balzarono contro da sinistra con una velocità sorprendente, apparendo come per magia da sotto il letto.

 

Rapidità, precisione e nessun rumore. Era tardi per reagire di ragione. Urlò, incrociando le braccia d’istinto a ripararsi la faccia e balzando in piedi dalla poltrona di riflesso.

 

Con lo scontro, il gatto lo fece inciampare nel suo appena recente seggio. Si ritrovò gambe all’aria dopo una caduta goffa e stupida, buffa se qualcuno avesse potuto vederla e per sua fortuna, di Raoul s’intende, sufficientemente storta da deviare l’attacco diretto della bestia a faccia e gola e a limitare i danni.

 

L’avambraccio sinistro gli bruciava terribilmente; il gatto doveva avergli lasciato dei bei segni profondi con gli artigli acuminati.

 

Si accorse di stringere ancora la pistola con la mano destra. Immediatamente la sinistra raggiunse la sua collega a formare una presa ferrea e maniacale attorno all’arma. Riprese coraggio di colpo, e tentò di localizzare il suo nemico.

 

Era lì, davanti a lui. Ad un paio di metri pronto a balzare nuovamente.

 

Tutto questo era successo in un paio di secondi, decimo più, decimo meno.

 

Il gatto nero, con la bocca spalancata a mostrare una dentatura maligna, bianchissima e appuntita da canini enormi, si era raccolto sulle zampe posteriori e aveva rizzato il pelo come un porcospino.

 

Si percepiva con indubbia chiarezza. Un attimo ancora e lo avrebbe aggredito.

 

Il seguito degli eventi, per Raoul, si svolse come una scena al rallentatore.

 

Le zampe del gatto si tesero in una spinta poderosa, mentre lui, ancora a terra, tendeva entrambe le braccia andando ad intercettare, con la pistola spianata, sulla traiettoria.

 

Il mirino si incrociò giusto, o per caso del destino, tra gli occhi oblunghi e dai riflessi luminosi, da sembrare quasi fosforescenti del suo nemico.

 

Le sue mani strinsero ancora di più a rinforzare la presa già estrema.

 

Le braccia, con un movimento sincrono dal basso verso l’alto, seguirono la direzione del balzo del gatto nero contro di lui, che puntava alla sua testa da buon animale cacciatore.

 

Sparò.

 

Un solo proiettile. Lo colpì in pieno ventre.

 

La bestia, senza un gemito, all’impatto sembrò rimbalzare su di un muro di gomma, ricadendo a peso morto due metri più indietro, poco oltre il punto da cui era partito per il suo balzo d’attacco. Non si mosse più. Non un fremito. Non un palpito.

 

Solo il frusciare del vento tra i rami interruppe il silenzio che seguì, profondo come l’anima dell’inferno.

 

Raoul si rialzò, sempre con la pistola puntata in avanti e sempre tenuta a due mani, con le nocche che risaltavano bianche sulla pelle abbronzata, simili a minuscoli sassi di fiumi levigati da un’eternità di acqua corrente.

 

Mise a fuoco la scena. Calò la tensione. Il tempo tornò a scorrere con percezione reale.

 

Il gatto era di schiena, con la testa riversa in direzione del letto, steso sopra una chiazza rosso scura che si stava allargando a vista d’occhio.

 

- Ti ho fregato bastardo. - Raoul lo disse piano, quasi a denti stretti, e mentre parlava sorrideva con ghigno compiaciuto. Tre passi e gli fu a ridosso, badando a non finire con i piedi nel sangue.

 

Non sapeva il perché o quale impulso lo guidasse, ma voleva vederlo bene quel muso malefico, forse per avere conferma della sua fine o forse per rendere conto a se stesso di avere avuto a che fare solo con un piccolo animale stronzo. Si abbassò e con la mano sinistra gli afferrò le zampe posteriori per girarlo.

 

Il gatto redivivo scalciò rapidamente, provocando profondi e dolorosi solchi nel palmo della mano e nel polso di Raoul. Allungò una zampata ad artigli sguainati verso la sua faccia allibita. Non ci arrivò per un pelo.

 

Cinque colpi di pistola andarono a segno, poi continuò per un pezzo a risuonare scarica con Raoul che insisteva a premere il grilletto.

 

Quando si fermò si accorse che del gatto non era rimasto che un ammasso sanguinolento di carne spappolata e pelo semi-bruciacchiato. Il sangue era sparso per il raggio di un paio di metri, muro e lenzuola compresi. Un pezzo di gamba era finito sul cuscino; almeno pareva un pezzo di gamba quell’osso scheggiato, rosso amaranto e con attorno un po’ di peluria nera.

 

Tra la parete ed i resti, il grosso dei resti, si vedevano dei pezzi informi simili a vermi, bianchi e grigi. - Doveva essere il cervello. -, pensò freddamente Raoul contrariamente a quanto diceva il suo stomaco, frenando a stento un conato di vomito.

 

Comunque era un fatto accertato che ora il gatto era sicuramente morto. Non ci pioveva. Raoul trasse un profondo e sollevante sospiro.

 

- Vaffanculo -, urlò, e lanciò la pistola scarica contro i resti dell’animale. Si avviò verso la finestra, alla ricerca di aria pulita. Aveva bisogno di aria, anche se calda, pesante e annacquata.

 

Tutto il braccio sinistro fino alla spalla pulsava, battendo come un negro incazzato su un tamburo. Pareva ardere nel fuoco da tanto gli bruciava. - Cazzo! Mi ha dato del filo da torcere quel bastardo… ma… -, un pensiero scaturì senza preavviso alcuno a rilevare un qualcosa di strano. Aveva la certezza negativa che gli era sfuggito un particolare… un dettaglio importante… cos’era che non andava?

 

- Il gatto! -

 

Da quando era entrato non aveva fatto il benché minimo rumore. Niente. Non aveva emesso neppure un misero miagolio. A due passi dalla finestra Raoul si fermò.

 

Alla luce della luna piena vide la sua camicia estremamente lacera e insanguinata, appiccicata a tratti sulla pelle sudata. Come aveva fatto a sbregarsi così? Si accorse di avete dei tagli anche sul fianco, roba superficiale, niente di che. - Ci sei arrivato poi… bastardo fino alla fine. -

 

Tentò di inspirare profondamente mentre la luna pareva sorridergli ghignosamente con un ambiguo gioco di ombre.

 

Gli si gelò il sangue.

 

"Un quarto di cento, ogni volta,
ripeteva il matto, … "

 

Le parole della filastrocca presero a scorrere nella sua mente, vellutate come una serie di ricordi nel dormiveglia di inizio notte.

 

"a caval della luna
se ne sta il diavolo, quatto, … "

 

Si volse con immensa fatica verso l’orologio, mentre una travolgente idea di panico si stava facendo strada verso il reale con la forza di una locomotiva in corsa tra quel mare di sensazioni sconnesse ed appannate da oblìo.

 

Segnava le 23.59.

 

Tentò di rigirarsi di scatto, ma i movimenti erano lenti, pietosamente lenti.

 

Vide… il gatto nero. Lo distinse con la coda dell’occhio e poi sempre più pienamente. Stava già camminando sul filo del tetto, passo fiero, sicuro di sè.

 

"per toglierti il cuore.
Nella forma di un gatto… "

 

Le parole continuavano a risuonargli nel cervello con una foga sempre più martellante. - Come un incantesimo! -, pensò Raoul, - Un maledetto incantesimo. - Voleva tremare per la paura, ma non ci riusciva. Voleva urlare per il terrore, ma la voce gli si smorzava in gola.

 

Il gatto era balzato sulla luna con un’agilità inquietante. Questa pareva palpitare di vita propria e Raoul, in uno stato traumatico totale, non poté fare a meno di sentire anche il proprio cuore che aveva preso a tambureggiare con anomala foga.

 

Ora il ritmo era chiaramente lo stesso. Luna e cuore, cuore e luna.

 

Una piccola pompa umana e un bianco satellite in cielo. Insieme, come due facce della stessa medaglia, come se fossero… la stessa cosa. Luna e cuore, cuore e luna.

 

Ne captava il battito potente. Lo sentiva crescere da dentro, nel petto e nella mente, aumentando di tono all’unisono con la filastrocca. Lo vedeva crescere fuori, nell’astro sfavillante e ipnotico. Luna e cuore, cuore e luna.

 

Il gatto alzò la testa con quell’indifferenza animale falsamente superiore e lo fissò, con due occhi rossi che parevano ingrandirsi come i fari di un’auto in avvicinamento.

 

"a riscuotere l’anima,
a pagamento di un patto. "

 

- Il patto… no! -

 

Il ricordo, fulgido. Era un giovane rampante, ambizioso. Voleva quel lavoro. Aveva avuto quello che voleva, anche se non gli spettava. L’avente diritto era morto in un incidente d’auto, una sua precisa richiesta. Non le modalità ma il risultato, con una prece diretta al grande boss degli inferi in cambio di…

 

- era per scherzo, così per dire. Non avrei mai pensato che… il diavolo non esiste. Non può… No! No! Nooo! -

 

La bestia nera dagli occhi rossi, seduta sopra la luna piena, diresse con calma una zampa anteriore verso il basso. Con gli artigli sguainati, lunghi, perfettamente distinguibili come lame d’acciaio al sole, si stagliava a coprire quella parte mediana della luna. Calò un’ombra a centro astro, dai contorni nitidi e scura.

 

Raoul sentì un peso crescente premergli con prepotenza sul petto. Una pressione invisibile lo stava trattenendo e schiacciando contemporaneamente.

 

Il gatto accostò la zampa al centro della luna e la penetrò con le sue unghie affilate, tirando senza fretta verso di sè. Cinque righe nerastre apparvero in mezzo all’astro illuminato e pulsante.

 

Quasi slogandosi la mandibola per il dolore prolungato e straziante Raoul urlò, portandosi di colpo entrambe le mani al petto. Le vide arrossarsi, del sangue che penetrava attraverso quel poco di camicia rimasto sano. Era caldo, morbido e fluiva con lentezza impressionante. Il dolore rimaneva una costante.

 

Il gatto, che pareva adesso ancora più nero, spalancò la bocca in quello che sarebbe potuto essere un muto grido di soddisfazione misto ad un ironico sorriso. Gli occhi somigliavano ora a due carboni ardenti.

 

Infilò la zampa con gesto rapido e deciso dentro la luna, simile ad una ciotola colma di latte. L’attraversò senza la minima fatica. Pareva quasi fosse immateriale dalla tanta facilità del gesto. Qualcosa di rosso e liquido, anche se oscurato dalla notte, spruzzò fuori come da una cascata cadendo verso il basso sull’orizzonte e addosso alla casa bifamiliare. Lo stesso effetto visivo se le fossero state rovesciate sopra delle bidonate di vernice.

 

Un dolore ancora più atroce da ossa fracassate scaturì come dal peggiore degli inferni dal petto di Raoul, che si strinse le braccia attorno alla vita e si chinò in avanti, cadendo prima carponi e poi steso e iniziando ad arrancare, contorcendosi come un epilettico in preda agli spasmi.

 

La realtà come l’aveva conosciuta non era più lì. In preda ai tormenti continuava a guardare stupefatto il tutto e il nulla, senza più riuscire a realizzare nient’altro che orrore. Il gatto, la luna, il tetto, il cielo. Sangue… il suo.

 

Gatto luna tetto cielo… sangue…

 

Alle spalle del tutto una nebbia grigia, nera e arancio pareva estendersi in un totale abbraccio con una forma vagamente umana. Adiacente il nulla parvenze di volti inesistenti fusi tra loro in contigua presenza, accompagnati la luci invisibili fuori spettro.

 

La luna era lì, particolare, con la sua cascata color rosso scuro, pressoché magenta, che s’infuocava di un colore più splendente scivolando sui sottofondi più chiari.

 

La fine?

 

- Può davvero sembrare umano o addirittura regale, un demone o un diavolo nelle forme di un animale? - Fu l’ultima domanda che Raoul riuscì a porsi in quell’unico sprazzo di ritorno al reale che precedeva la sua fine.

 

Un verso bestiale gli si inarticolò dalla gola in un acuto inumano mentre le sua braccia si aprivano, divelte da una potenza divaricante incredibile, ed il busto si inarcava oscenamente in avanti come se qualcuno lo avesse agganciato alla cintura e strappato con forza verso l’alto.

 

Stramazzò a terra, inerte come un sacco di stracci, in silenzio.

 

Il gatto nero, con un gesto imperiosamente umano, estrasse la zampa per metà conficcata nel centro della luna. Non era più una zampa la sua, ma un braccio deforme e disarticolato che finiva in una mano scheletrica e rostrata, racchiusa a pugno come se contenesse qualcosa. Tese il braccio come a salutare il cielo innalzando la mano racchiusa sopra la testa. La voltò e aprì col largo palmo rivolto verso l’alto. Come quando un re innalza lo scettro o la corona alla vista del popolo, per dimostrare in modo assoluto la sua potenza, il suo veto costante sulla vita e sulla morte, lui mostrava ciò che si era guadagnato. Imperterrito e noncurante del mondo prono sotto di lui, il gatto nero o quel che veramente era rimasto ad osservare l’oggetto della sua conquista nelle sue ultime pulsazioni vitali, nel suo diventare immobile. Era rimasto ad osservare il suo rapido rinsecchirsi, come un palloncino aspirato dall’interno. Era rimasto ad osservare l’anima che gradualmente da materia era diventata tale, un filo di fumo agglomeratosi nella sua mano in una piccola sfera sfocata che pareva tutt’altro che solida. Era rimasto ad osservare…

 

Dalla luna squarciata continuava a zampillare il liquido rosso-nerastro, che scivolava, lento e denso, di fianco alla linea obliqua e bruna del tetto fino al lato della casa.

 

La coltre di nebbia si stava rapidamente espandendo e ispessendo addosso allo scenario immobile.

 

In un attimo irrealmente rapido aveva già ricoperto tutto, luna, gatto, casa, facendoli sparire come dietro ad un lenzuolo rossastro e screziato in mille tonalità contigue.

 

Da un impossibile centro parve crescere un vortice che si allargò in un giro assurdo, ipnotico, infernale finché d’un tratto sparì, come se non ci fosse mai stato.

 

Il gatto era sparito, il tetto pulito.

 

La luna risplendeva, integra, in tutta la sua bellezza astrale.

 

Il cielo era chiaro, lindo e pieno di stelle.

 

Nella stanza, Raoul giaceva a terra, immobile come solo la morte può essere, come solo la morte può imporre.

 

Con l’addome all’aria, appena spostato sul fianco destro, le braccia allargate a ricordare Gesù sulla croce e le gambe sotto il corpo da sembrare segate all’altezza delle ginocchia. Il viso tirato in un’espressione di indefinibile terrore, una follia di quella stessa particolare morte.

 

Sul torace, alla sinistra, in un mare di sangue che continuava ancora ad uscire dal corpo sul pavimento inondato, la camicia infossata formava una specie di conca, un quaranta centimetri di incavo, come se sotto ci fosse del vuoto.

Marco Milani