Catarsi oscura

La nebbia avvolgeva come un lugubre sudario i grigi e scrostati muri della grande villa che si ergeva solitaria in mezzo ai campi. Le persiane chiuse parevano grondare di lacrime amare, accompagnate da struggenti litanie che riempivano gli spazi orfani di silenzi imperturbabili.
All’interno, la sua stanza, dalla porta semi aperta era intatta, come se qualcuno ci risiedesse ancora, allietando i suoi angoli più nascosti con risa e canti. Le bambole delle Sailor Moon, i pupazzetti dei Pokemon, le Barbie e tutti gli altri giocattoli giacevano ancora sulle mensole, immobili fissando il nulla con i loro occhi vitrei. Alcuni volumi di fiabe per bambini giacevano riversi, ad attendere speranzosi che una dolce voce desse di nuovo vita ai loro scritti immobili. Pluto era ancora adagiato sul copriletto a fiori in quella posizione innaturale, con le gambe aperte, che tanto la faceva sorridere.
Sopra una mensola c’era anche quella maledetta statua africana di legno nero, raffigurante un terribile mostro, che forse fu l’inizio della sua malattia.
Fuori da quella porta, giù per le buie scale, regnava fiero Re Dolore con le sue dame Pianto e Disperazione.
Ombre funebri si stendevano impadronendosi della pallida luce che rischiarava fiocamente la grande sala dall’arredamento austero. Singhiozzi, pianti soffocati, preghiere bisbigliate scuotendo il capo parevano quasi increspare i delicati filamenti di fumo che si contorcevano, alzandosi dai larghi brucia essenze.
Al centro della stanza si trovava una piccola bara bianca, che scoperta lasciava intravedere il volto pallido e dormiente di una giovane bambina dai capelli color del miele. Attorno a lei figure completamente vestite di nero si disperavano con contegno, creando un’innaturale ma armonica sinfonia del tormento. Corone di fiori dai colori vividi si contrapponevano alle tinte violacee dei pesanti paramenti funebri, che andavano a creare il giusto palcoscenico dove mettere in scena il dolore umano.
La madre di Elena singhiozzava abbracciata dal marito, stringendosi alle ultime certezze e abbandonandosi alla disperazione di una genitrice che ha perso la sua unica figlia.
Da quando lui era tornato dal Congo, quella strana malattia se l’era presa lentamente, succhiandole la linfa vitale giorno dopo giorno. Nessuno aveva avuto risposte all’insensato deperimento che aveva portato la piccola ad una lugubre e straziante morte.
Ora davanti a quel piccolo catafalco che reggeva l’ultimo giaciglio, le ombre dei presenti imbrunivano con i loro sguardi sofferenti il volto scavato della piccola addormentata. Elena era bellissima con le guance lievemente arrossate dal trucco che le nascondeva il colorito smunto che solo la morte sa dare alla pelle degli uomini. Sembrava riposare tranquilla, rilassata, incurante di tutto ciò che accadeva intorno a lei e della gente che le singhiozzava attorno.

Presto però, tutti se ne sarebbero andati, lasciando quel luogo come spettri sbiaditi le cui litanie penetrate nelle mura, le avrebbero segnate indelebilmente con le tracce della sofferenza. Tutto sarebbe stato di nuovo vuoto e silenzioso, le tende candide mosse da un vento innaturale avrebbero danzato per corridoi lunghi e stretti, sottolineando incolmabili solitudini. Le ombre si stavano allungando ed il tempo della tristezza giunse con il volo lontano di corvi neri. Un tramonto tagliente come lacrime amare, finalmente scese portando con se i dubbi dell’oscurità e i suoi timori aprendo il sipario alla madre Tenebra. La prima notte senza Elena, la prima notte che non sarebbe passata mai, filtrata goccia a goccia nel setaccio dello sconforto più cupo.
Ada non riusciva a dormire, fino a tarda ora era stata al capezzale della piccola bara, pensando agli artigli immondi della malattia che le aveva strappato la sua piccola coccinella, privandola di tutta la gaiezza che riempiva i suoi giorni. Persa in oscure meditazioni stringeva il suo ventre gravido di un'altra vita, che forse avrebbe un poco attenuato i ricordi di quella insensata tragedia famigliare. Le ore passavano grevi scandite dai rintocchi dell’orologio a pendolo, finché una mano si posò leggera sulle sue spalle dandogli un brivido. La voce di Sandro dissipò i pensieri plumbei con il suo tono sicuro e confortante. Esortata dal sussurro del marito, si lasciò convincere a sdraiarsi un poco e riposare... ma come avrebbe potuto rilassarsi persa in quell’incubo maledetto di cui era impossibile svegliarsi?
Dopo poco tempo, la spossatezza ebbe il sopravvento e lento calò il sipario sulle sue palpebre stanche. Morfeo stava riuscendo a fatica a trascinarla nei suoi reami onirici, quando... qualcosa accadde.
I suoi sensi fremettero in balia del terrore, facendogli sbarrare gli occhi. Dall’oscurità gli era sembrato di sentire un pianto leggero e una voce fievole sembrava chiamare, quasi supplicare: <Mamma, mamma dove sei, ho tanta paura...>
La donna si mise a sedere sul letto con uno scatto, sentendo il cuore che gli pulsava in gola, realizzando di essere sveglia e pienamente padrona delle proprie emozioni. Cercò di non svegliare il marito, si infilò le ciabatte e uscì trepidante dalla stanza, tendendo l’orecchio ad ogni più piccolo rumore.
Scese le scale lentamente appoggiandosi al corrimano, come ammagliata da un oscuro richiamo si trovò nella spaziosa sala dove si trovava la bara della sua piccola Elena.
Accese i deboli fari, come a non voler disturbare con troppa luce il riposo della sua bambina. Si strinse addosso la camicia da notte pervasa da una profonda sensazione di inquietudine. Si fermò in preda ad un crampo di terrore allo stomaco quando si rese conto di sentire leggeri movimenti all’interno della cassa. Piccoli colpi, lo sfregare delle vesti e dei velluti, come se ci fosse qualcuno che si rigirasse in preda ad un sonno agitato. La donna deglutì, si mise una mano davanti alla bocca cosciente dell’oggettiva inalterabilità del sonno dei morti, ma sicura di ciò che stava vivendo.
Cercando di dominarsi fece un lungo respiro, avanzò ancora di qualche passo per poi fermarsi nuovamente paralizzata dal terrore. Una piccola mano pallida si era appoggiata al bordo della bara e la fievole voce che credeva di avere sentito nei suoi sogni, riprese: <Mamma, perché mi lascia sola tra le ombre... ho paura ci sono dei mostri cattivi qui... quella brutta statua mi ha preso...>
La donna dovette raccogliere tutto il suo coraggio (e qualcosa in più) per non svenire, cercando di ostacolare il gelo che gli saliva strisciando dalla colonna vertebrale fino ad arrivare ai capelli. Dal feretro veniva un tremendo puzzo di putrefazione e fissando la manina, la donna vide grossi vermi bianchi e gonfi, staccarsi da essa e ricadere a terra contorcendosi.
Leggeri singhiozzi venivano dall’ultimo giaciglio e ancora dei lievi rumori giunsero dall’interno. Ada si sentì sprofondare nel baratro del terrore, quando con un movimento lento ma fluido, la piccola Elena si levò dal suo “letto”, mettendosi a sedere nella bara.
La testolina ruotò, i suoi occhi inespressivi e privi di luce la fissarono tristemente mentre il suo pianto si fece rabbioso e le sue parole dure: <Mamma perché mi hai lasciato morire, ti odio, non ti voglio più bene... ti odio!>
La sua voce divenne prima simile ad un sibilo rabbioso, per poi distorcersi in un ringhio tremendo e inumano che vomitava parole in una lingua sconosciuta. La sua testa sbatteva in ogni direzione in preda a spasmi che avrebbero sicuramente spezzato il collo ad un vivente. Il suo piccolo volto tondo, prese a distorcersi, incresparsi, tendersi fino a diventare la maschera del terrore più cupo. Un sorriso malvagio tagliò il pallido viso allargandosi a dismisura sul suo faccino. Era come un taglio che estendendosi squarciava labbra, pelle fino a quasi ad arrivare alle orecchie, mostrando fila di orride zanne acuminate e bavose. La donna urlò mentre quella cosa terrificante stava uscendo dalla bara con movimenti innaturalmente snodati. Con un tonfo fu giù sul tappeto in tutta la sua bestialità, accucciata a carponi, appoggiando anche le manine artigliate a terra, come una belva pronta a scattare.
<Mammina, adesso ti farò un po’ di male per festeggiare la mia nuova nascita...>
Ada, povera Ada, non fece nemmeno in tempo a difendersi che la sua gola fu squarciata e il grugno del demone fu intriso del suo sangue rosso e caldo.
Sandro accorse giù dal letto, svegliato dal trambusto e da quel tremendo urlo di terrore che era risuonato in tutta la casa. Scese veloce le scale saltando a due a due i gradini, per poi bloccarsi sulla soglia della stanza, paralizzato dal terrore e dal puzzo di morte, simile a quello che ristagna in un mattatoio.
Al suolo giaceva Ada in una pozza di sangue, poteva vedere il volto devastato voltato verso di lui in un ultima espressione di assoluto orrore.
Forse le sue labbra si mossero agognando l’ultimo parola... un grido muto che risuonò nella mente di lui come un tuono e che diceva <AIUTO!>
Chino sopra il corpo di lei, quella cosa che una volta era sua figlia e che ora sembrava pervasa da una nuova linfa vitale corrotta e malefica.
La bestia si girò verso l’uomo, mettendo in mostra tra le sue fauci un feto non ancora formato, attaccato al ventre divelto della donna da un sottile cordone ombelicale. Lo sconvolto Sandro fece per scappare in preda al delirio e al panico più totale. Le orrende mandibole della bestia si aprirono lasciando cadere il pasto infame e una voce leggera, amorevole, sottile –in contrasto con l’orribile aspetto- parlò delicata: <Ciao papà, hai visto la mamma che si è fatta la bua? E’ stato bello il tuo regalo dall’Africa... grazie... adesso c’è un nuovo amico dentro di me. Ora verrò anche da te, ho voglia di coccole...>
L’uomo urlò sconvolto da quella scena che non avrebbe mai immaginato nemmeno nei suoi incubi più cupi. L’ultima cosa che si fissò sulla sua retina morente, fu la visione del volto della morte stessa, simile a quell’osceno idolo che lui stesso aveva portato a casa dalle profondità maledette dell’Africa nera.
Quando la polizia il giorno dopo fece irruzione nella villa si trovò di fronte una scena da film splatter di serie Z. Le forze dell’ordine erano state allertate dai parenti, che venuti a rendere visita alla piccola defunta avevano trovato invece la casa stranamente vuota.
Lo spettacolo ai loro occhi fu orrendo e pregno di una crudeltà inumana.
Il sangue era ovunque; sui muri, sulle tende, per terra... formando con gli schizzi oscuri simboli dalle geometrie imperscrutabili. Qualcuno aveva disegnato quei misteriosi e malefici segni in maniera forse rituale.
I brandelli della donna orrendamente macellata erano sparsi in ogni stanza, posti nei punti più visibili, come demoniaci soprammobili di una brutalità diabolica.
Per suggellare l’incubo, la scena più orrida si manifestò con macabra enfasi teatrale, nella spaziosa sala. Impiccato al lampadario di cristallo con i propri intestini attorno al collo, penzolava il corpo del padre. Il torace era divelto come le porte di un vecchio bar, l’addome squarciato e quasi svuotato del suo contenuto, lasciava penzolare lunghi brandelli di carne e interiora. Nella cassa toracica, dove avrebbe dovuto esserci il cuore, si trovava una strana statua africana –antica, tribale, oscura- a cui nessuno diede il giusto interesse.
Inutile dire che molti dei poliziotti vomitarono a quella vista ed altri si coprirono il volto impreparati a quell’orrore così anomalo e brutale. A fatica fecero le loro rilevazioni lasciando quel fatto di sangue in un mistero che forse sarebbe durato in eterno.
Tuttavia il particolare più orrendo e misterioso, fu il costatare che la piccola bara bianca era inspiegabilmente vuota.

Fabio Ciceroni