Ombre di città

Calava la notte sulla città, la pioggia ticchettava sul terreno come dita nervose su di un tavolo. Alcuni fuochi di là dal ponte si alzavano in oscure colonne di fumo; copertoni e vapore. Solo, nella via, Jacob barcollava senza meta, ubriaco come mai prima d'ora, digrignava i denti fermandosi di tanto in tanto per urlare qualche bestemmia al vuoto del cielo in quella notte in cui nuvole nere avevano oscurato la sola fede dei reietti, la luna.
Il lieve ticchettio divenne a poco a poco rullo di tamburi e come grancasse rombavano i tuoni nell'aria, mentre i lampi squarciavano il cielo in lunghi solchi accecanti. Nel vicolo c'era guazza, sporco e immondizia e senza tetto accasciati sotto strati di giornale e sacchi di plastica nera.
Violento esplose il suo ennesimo urlo e poi un altro ancora dopo aver preso tutto il fiato che poteva gridò nuovamente rabbiose parole e continuò fino a quando la voce non si spezzò e le sue ginocchia furono flesse dallo sforzo; in un giramento di capo ricadde al suolo stordito, senza più aria nei polmoni, raggomitolato su se stesso, stremato, svenne. Un ora, forse due, ma potevano anche essere mille anni, per chi non ha più nulla a questo mondo il tempo non è poi così importante, riuscì a riaprire gli occhi intontito, sporco, fradicio all'inverosimile; tossì.
Un'ombra sfrecciò davanti a lui attraversando il vicolo, veloce come un colpo di vento. Non seppe inizialmente se la aveva vista o meno, non gli importava, non era impaurito, alcunché avrebbe potuto turbarlo, più di quanto già lo fosse. Ora era spiovuto e lui ancora giaceva nel vicolo, guardò il cielo, alcune pallide stelle, brillantissime, spavalde sfidavano le artificiali luci della città. Almeno loro ancora erano lì, pensò, io invece, pensò compatendosi, non sarò qui ancora per lungo tempo; la mia vita è finita molti anni fa, solo ora ne sono consapevole.

"La mia vita non è mai iniziata" sussurrò sommessamente a denti stretti, il freddo era pungente e tremava. "Ho sempre sfiorato la vita, l'ho vista in molte persone, nelle azioni di tanti uomini accanto a me, ho pensato di afferrarla nei piaceri della carne, di goderla a pieno nell'amicizia degli altri uomini, nell'amore delle donne. Dio! se ho lottato per avere ciò che volevo! L'impegno, voler essere migliore per me, per gli altri, essere come mi cercavano, niente è servito, ero sempre vuoto come un vaso di coccio e come esso ai primi scossoni sono andato in frantumi. La vita è una vibrazione interiore che spezza e distrugge ed io pensavo di controllarla confidando nel mio io esteriore, credevo nel mio apparire...ho sbagliato".
Di nuovo l'ombra passò di fronte ai suoi occhi, stavolta lo inquietò questo fatto. "Parlo da solo delle mie sconfitte vedo ombre sono ubriaco marcio, immerso nella putrescente mia realtà, di scarto, di rifiuto...non...non è giusto finire co...così" le parole si persero nei singhiozzi e le stelle furono rifratte in mille frammenti di luminosità celeste dalle lacrime che inondarono i suoi occhi. D'un tratto rapida come il lampo una mano uscì dall'oscurità dei muri di periferia afferrandolo per il collo; il povero Jacob non ebbe nemmeno il tempo di gridare, la stretta era micidiale, tanto da piegare i tendini del collo come fuscelli; fu sollevato di peso da terra e sbattuto al muro senza alcuna pietà. Cozzando con violenza la nuca si ferì; un taglio profondo che iniziò a grondare sangue. Di seguito alcune costole si spezzarono sotto i colpi che l'oscuro essere, già, proprio quell'ombra, gli sferrò sul torace con la volontà di ridestarlo dallo stato di incoscienza in cui era piombato in seguito allo spietato colpo infertogli.
La figura era avvolta in un lungo mantello, coperta da un cappello dalla tesa larga ed un passamontagna nero dal quale si intravedevano solo una bocca con denti bianchissimi e due occhi fiammeggianti. Parlò con voce roca, quasi un verso di belva, un ruggito profondo, impose il silenzio all'uomo ora schiacciato contro il muro livido dal terrore, in fondo anche chi è stato sottoposto ai più grandi dolori di fronte all'ignoto prova terrore. "La tua condizione di infimità causa un profondo ribrezzo in me. Sei stato vittima della sorte che tu stesso hai progettato con la tua sozza mentalità. Hai giudicato tutti, sempre e solo per l'apparenza, hai colpito chi era più debole e abusato del tuo misero potere...non sei un eroe - sussurò sarcastico - questo lo sai, vero? Ora morirai. Non per mano tua, sarà quella del destino ad attraversare la tua esistenza e a porvi fine. Ti è forse congeniale una vita in queste condizioni? Non credo proprio. Non sei mai stato nulla e lo sai bene. Ti sei sempre afflitto, nella tua condizione di nullità hai desiderato di eccellere in qualcosa e quando la vita te ne ha data l'occasione hai fallito miseramente." Jacob sentì che la morsa intorno al collo si stava allentando rispetto a prima e raccogliendo il coraggio, di fronte alla prospettiva della morte, desiderata solo come via di fuga dalla sua triste realtà, cercò parole di implorazione: "No, ti prego non mi uccidere! Ho capito, sai! Ho capito l'errore ti prego non farmi del male voglio porre rimedio."
La creatura stizzita ruggì: "Misera creatura, soffri la morte più di quanto tu credessi! Sei come tutti gli altri sciocchi mortali, forse anche peggio... dite che la vita è senz'altro più spaventosa della morte e che in molti casi sarebbe preferibile una morte veloce ad una vita lunga; agonia, pene, dolori sono le vostre scuse! Non hai avuto lo spirito per andartene e ti manca il coraggio di restare... patetico, ti lascerò andare alla tua tristezza, alla tua esistenza miserabile. Tanto prima o poi morirai comunque."
Jacob era felice all'inverosimile, non poteva credere a quello in cui era riuscito, aveva salvato la sua vita e nello stesso tempo aveva scoperto una nuova forza in se stesso. Disse: "Non so come ringraziarti, avevo perso la fiducia nella vita. Avevo perso la speranza. Grazie."
L'ombra mostrò più chiaro ancora il suo ghigno, sorridendo brillò alla rossastra luce del lampione una lunga fila di denti, aguzzi come una tagliola; rise con forza, poi disse: "Illuso essere speranzoso, muori!" Con la sola stretta della mano, gli spezzò il collo. Dopo aver afferrato con l'altra il corpo la staccò di netto. Sorrise un ultima volta agli occhi stralunati della vittima e fece rotolare la testa sul selciato fino ai piedi del cartone su cui un barbone dormiva.
L'ombra scomparve nella via, tra il fumo e la nebbia che ormai a tarda notte si stava alzando. La luna splendeva in cielo, era piena, luminosa, argentea. Ancora di là dal ponte alcuni fuochi crepitavano, altri ormai erano spenti, la tempesta era passata, il freddo, la pioggia e con esse il ricordo di un incubo, la realtà dell'Incubo per eccellenza, quello chiamato vita.

Eugenio Sacco

Eugenio Sacco è nato a Roma nel 1982, vive a Roma, non importa molto se vi morirà. Non dimostra i venti lunghissimi anni che invece porta sulla spalle. Finge di Studiare alla Facoltà di Scienze Politiche della Sapienza. Ama oltremodo gli scritti del grandissimo Edgar Allan Poe, la nobiltà del linguaggio e la meticolosità della scelta di ogni singolo termine nella poesia. Adora la dimensione onirica dei racconti del solitario H.P. Lovecraft.  Sogna che entrambi siano un suo punto di riferimento. Scribacchia i testi delle canzoni per un gruppo epic-metal (OneiroS) nel quale lui stesso canta, male. Vorrebbe scrivere per mestiere, ma viste le premesse sapete già chi sarà quel barbone gobbo, coi capelli lunghi e il naso da Cyrano che tra qualche tempo vi si avvicinerà nei dintorni di Piazza Trilussa o del Pantheon per chiedervi un tozzo di pane (come se la gente girasse coi tozzi di pane...) o 50 cent per scaldarsi al calore di una bottiglia di pessimo whiskey (si scriverà così?) acquistato forse in un discount. Siate gentili e soprattutto generosi con lui; Grazie. Sito personle: www.oneiros.3000.it