Il graffio sulla mano

Maledetti gatti, non li sopporto.
Miagolano sul mio tetto ogni notte, alla ricerca di cibo o di una compagna.
Miagolano perchè così possono parlare tra loro, in un codice a noi sconosciuto.
Odio i gatti, e li temo.
Da piccolo scommisi infantilmente di prendere un gatto per la coda e di lanciarlo in aria con un mio cugino di chissà quale grado: eravamo nel giardino di casa mia, lì molti gatti randagi venivano a trovare mio padre, che li rimpinzava degli avanzi della domenica. Mentre se ne stavano belli belli ad abbuffarsi di pollo e patate, mi avvicinai a uno bello grosso, col pelo marrone e la coda spelacchiata, qualche graffio qua e là dovuto alle solite risse e una macchia bianca sulla zampa anteriore destra. Afferrai la coda e la strinsi con tutte le forze, sollevando in aria il sacchetto di patate: ma a sei anni nessuno è capace di calcolare con quante probabilità un gatto si lascerà prendere per la coda per poi fare un volo di sei metri circa in aria. Proprio nel momento in cui lo stavo per lanciare in aria e vedermi riscossore di una fetta di torta, quello fece una giravolta, e con decisione felina mollò un graffio che mi stordì come un pugno in faccia.
Caddi a terra piangendo, mia madre accorse e diede la colpa a mio padre, poi a me che mi ero avvicinato per stuzzicare il randagio. Passarono alcuni mesi e mamma andò a vivere da sola: si era stufata di me, di papà e della sua passione per i gatti, era forse stata gelosa di un amore più forte di quello che aveva ricevuto. Soffersi molto per questo, ed è uno dei  motivi che mi spinse a odiare quelle palle di pelo baffute. Passò il tempo anche per me e a ventun'anni mi trasferii a... per completare i miei studi e laurearmi.
Avrei potuto diventare un buon professore di letteratura, se non fosse stato per la salute di mio padre, ammalatosi il giorno in cui avevo completato la prima metà. Tornai per un breve periodo di tempo, la situazione migliorò e peggiorò, lui morì e io persi l'occasione di farmi un prestigio.
Depresso e solo, mi rimase solo la vecchia casa e un mucchio di randagi schifosi da nutrire: maledetti, pensavo tra me e me, se gli avete trasmesso qualche malattia e lo avete portato a questo, vi spello tutti e mi faccio un cappotto di gatto da regalare a mia madre.
Mia madre.
Cara mamma, bel coraggio hai avuto a non farti sentire qunado papà se n'è andato, tutti a chiedermi se eri venuta, e io a rispondere sì sì che è venuta, aveva impegni, ma quali impegni mamma, quali maledetti impegni, nemmeno una parola a tuo figlio, cresciuto con un padre buono ma solo, mamma perchè mi hai fatto questo, perchè, cosa ti ha spinto?
Lasciamo perdere, una volta "orfano" non si torna più indietro.
E così passavo i miei giorni a dare da mangiare ai gatti e innaffiare qualche pianta del terrazzo, poi mi mettevo a scrivere sulla macchina di mio padre racconti gialli, ne cestinavo uno e ne riscrivevo un altro. Mandavo giù un sorso d'aranciata ogni tanto, e mangiavo un boccone misero, poi riprendevo a scrivere. Le mie giornate passavano così, in compagnia dei gatti, maledetti gatti.

Un giorno, mentre mi facevo la barba, mi accorsi che sulla mano avevo un graffio: mi dissi che non era possibile, nessuno dei gatti aveva osato graffiarmi, sarò stato io con una chiave o una pianta, ma quel graffio non mi era tanto familiare, pensavo tra me e me di averlo già avuto.
Come può una ferita rinascere sulla pelle risanatasi nel tempo?

 

Mi rivolsi al dottor ..., medico di famiglia: mi prescrisse una pomata di quelle che costano un occhio della cifra, che giacciono negli scaffali più bui delle farmacie, da spalmare due volte al giorno senza sciacquare con acqua. Passano due settimane, un leggero miglioramento, altre due, graffio sparito, ma sai che fastidio battere a macchina con le dita lisce o le maledette leccate d'affetto dei baffuti, mannaggia a loro. Il graffio scomparve, non lasciò più alcuna traccia e io tornai a scrivere gialli in mala compagnia. Ma tutto stava per essere stravolto.

 

Telefonarono nel cuore della notte.
Mi svegliai di soprassalto, pensando a un incendio nel palazzo o a qualche disgraziato insonne che passava il tempo a disturbare la gente: alzai la cornetta e mi parlò una voce dolce, che ad un primo ascolto non avevo riconosciuto, ma che distinsi lentamente... mia madre.

 

Mi diede appuntamento in un caffè vicino il centro, dove lei era solita andare appena finito di dare lezione di pianoforte. Campava abbastanza bene, i suoi erano allievi di famiglie ricche, membri dell'onorata società e amici di amici di politici influenti, i quali mi disgustavano più che mai. Raccontò tutto quello che aveva passato con mio padre, incomprensioni, liti, abbandoni, ripicche, scappatelle, Ridge di Beautiful avrebbe trovato pane per i suoi denti.
Mamma, mi fai schifo, avrei voluto dirle, ma il copione prevedeva che avrei dovuto perdonarla per poi passare più tempo assieme, venirla a trovare dopo le lezioni, accompagnarla a teatro, cenare in un locale elegante, tutte quelle cose che mio padre sembrava non avere mai fatto in dodici anni di matrimonio.
La prima frase che stavo per dirle, quando cominciai a sentirmi male, preso da qualcosa lungo lo stomaco fino alla gola, un bruciore alla mano ed eccola riapparire! Mia madre preoccupata si alzò dal tavolo e lasciò cinquantamila senza voler resto, e mi portò a casa sua: mi fece distendere sul divano del soggiorno e mi portò da bere dell'acqua. Mi toccò la fronte, disse che avevo la febbre, mi avvolse con una coperta e mi bagnò la fronte con un'asciugamano.
Ero nel pallone totale, non sentivo arrivare la voce di mia madre dallla cucina, blateravo qualcosa, qualcosa che suonava come... un miagolìo!
MIAGOLAVO!
Impossibile, il delirio me lo faceva immaginare, ma stavo miagolando, dio dio dio, miagolavo nel delirio della febbre!
E piombavo in un baratro di sonno mortale....

 

Mi risvegliai, stavo meglio grazie a dio. Avevo sete e bevvi tutto d'un sorso il bicchiere che mia madre aveva lasciato sul comodino accanto al divano dove avevo riposato. Mamma?
Che cosa stava facendo mamma?
Era in cucina, forse?
Aprii la cucina, sperando di trovarla ,quando una vista agghiacciante mi pietrificò e ammutolii per il raccapriccio.

 

Un mucchio di gatti randagi stava banchettando con i resti di un corpo umano.
Il volto era irriconoscibile, graffiato da artigli spietati, le orbite erano colme di bocconcini di carne rigurgitati. Lo stomaco era stato sventrato come da una falce affilata, alcuni gatti rosicchiavano le budella spensierati. I capelli, quei pochi capelli che restavano, erano appicciati col sangue accanto alla credenza, dove una mamma coi cuccioli aveva rovesciato un cartone di latte e stava leccandolo.
Quando entrai, i gatti mi circondarono e, per la prima volta, mi fissarono con occhio buono, quasi ebbi l'impressione che muovessero le loro piccole labbra e dicessero: "Padrone". Restai stordito, poi mi ripresi inspiegabilmente, come se non fosse successo niente e li dissi: "Torniamo a casa".

Domenico Rizzo