Il cerchio del soldato

Nella distesa assolata, al di là delle alture che s'innalzavano prospicienti il mare di Nessuno, un soldato attendeva l'avvento del crepuscolo, con le gambe incrociate e con la schiena contro l'esoscheletro di un droide da campagna. Il suo scalpo di guerra. L'unico che era riuscito ad agguantare, accerchiare e distruggere. Il pianeta non aveva nome: era soltanto un'indefinibile codice assegnato da chi aveva settato la mappa stellare secoli addietro.
Il soldato sorrideva beffardo ai colori tinta pastello che solcavano il cielo abuzzito; scherniva con la sua inerzia il silenzio monotono delle lune lontane. I ricordi erano barlumi di tempo remoto, perduto, annebbiato, morto e sepolto. Sarebbe stata un'attesa lunga, la morte. In nessun modo sarebbe potuto sopravvivere: nessuna astronave sarebbe mai atterrata in quel luogo sperduto. Avrebbe potuto mettersi in marcia e circumnavigare quel pianeta; invano: sapeva benissimo che non vi erano forme di vita alcuna.
"Perchè io? Perchè qui?" avrebbe potuto dire.
Nessuno era in ascolto. Nessuno si sarebbe ricordato di lui. Nessuno sarebbe venuto per deporre omaggi al suo capezzale.
"Perchè la sorte non ha voluto che fossi io a cadere? Perchè non sono insieme ai miei compagni nel miasma della battaglia furente?"
Si voltò su se stesso e colpì il cranio abnorme della macchina addormentata, ricevette una scarica elettrica; sussultò e per un istante, che gli parve l'eternità, ebbe l'impressione che il nemico potesse risvegliarsi. Allora si alzò in piedi, franando subito dopo tra detriti rossastri. Adesso teneva la bocca spalancata: tremava per la paura. In fondo era solo, contro il nemico, sotto un sole cocente di un mondo lontano della Galassia più prossima ai confini dell'universo.

Ma il droide non diede altri segni di vita; il soldato chiuse gli occhi e riprese a respirare. Infilò le dita in un tasca e ne cavò delle pillole che portò subito alla bocca. Le inghiottì.
Quando si riprese ritornò a sedersi accanto al droide. Lo afferrò per la corazza e lo fece scivolare giù per la duna di sabbia dorata; la macchina rimase inerte in una posa statica. Il soldato si deterse la fronte con un lembo della casacca. Era madido di sudore e respirare gli veniva difficile. Il volto era segnato dall'arsura di quelle lande desolate. Le mani insanguinate per via delle rocce aguzze erano oramai insensibili ed intorpidite. Il suo cuore batteva aritmicamente, come un metronomo impazzito. La mente devastata dal miasma della battaglia che lo aveva risparmiato. Ricordi sbiaditi e nient'altro. Il suo sguardo freddo e tagliente come nient'altro nell'universo. Indossava la divisa grigia della fanteria spaziale, ma oramai si considerava un disertore. Il fucile protonico era inutilizzabile: ogni pallottola era stata esplosa. Ne avesse avuta una, l'avrebbe usata su di sè. Il resto dell'equipaggiamento invece, lo aveva perso lungo le vie tortuose del deserto.
Se avesse avuto lacrime avrebbe pianto. Se avesse avuto fiato avrebbe urlato maledizioni. Ma spossato com'era non sarebbe stato nemmeno capace a resistere ad un conato di vomito. Allora perchè continuare a vivere? Perchè respirare atmosfera aliena? Per essere schiavi di una razza straniera? Per essere venduti nei mercati tra le stelle?
I compagni dispersi tra dune solitarie erano moncherini di carne; perchè lui doveva pensare di scampare al destino? Chi era se non un fante sperduto su di un insignificante pianeta?

 

Così si distese a fatica contro la sabbia soffice e rimase immobile come una tartaruga senza il suo carapace. Mentre le ultime lacrime presero a solcargli il viso pensò che non avrebbe potuto far altro che attendere in silenzio e senza pensare. Prima dell'alba di un nuovo giorno per lui sarebbe giunta la fine. Se almeno il suo cuore fosse stata una pila atomica ... e se avesse avuto un cervello positronico, senza ricordi, sentimenti e sensazioni … non avrebbe sofferto.

Arthur J. Cochran