di Marco Cattarulla - pagine 172 - 14,00 - Edizioni Il Filo
Leggere un libro targato Il filo di un autore esordiente, per chi bazzica il sottobosco letterario della rete, potrebbe introdurre un qualche elemento di pregiudizio. C'è però subito un contraltare a questa possibilità, ovvero il nome dell'autore, che per chi segue da qualche tempo la community di scheletri.com, non sarà certo sconosciuto. Diversi sono infatti i racconti di Marco Cattarulla che potete ancora leggere su questo sito, ed è piacevole constatare, leggendo queste Storie cattive, come vi sia stata una crescita e un rafforzamento nello stile nella sua scrittura.
Siamo
perciò lontani da un prodotto che presenta le principali pecche di molti esordienti, e
siamo di fronte a un autore che si è fatto e si sta facendo le ossa, ed è un fatto che
ha una visibile ricaduta positiva sul suo lavoro.
L'autore ci presenta quattro racconti lunghi, i quali, benché presentino ancora qualche
lieve ingenuità nella costruzione della trama e nello spazio dato ai vari elementi che la
compongono, sono comunque leggibili, onesti e, alla fine dei giochi, pienamente
sufficienti.
Si coglie soprattutto, in queste quattro storie uno stile in via di
formazione, ma che già adesso presenta alcune caratteristiche chiare e distinguibili. La
preferenza per ambientazioni nostrane, il piacere della descrizione di paesaggio,
quotidianità e stati d'animo, la deriva quasi naturale verso il fantastico, sono un
denominatore comune, e a fine lettura sorge quasi il dubbio che queste storie non solo
siano cattive, ma siano soprattutto fantastiche, nel senso letterario del termine.
Il titolo, infatti, potrebbe far pensare a una raccolta noir, ma per almeno tre quarti del
lavoro, non è tanto la cattiveria che trasporta il lettore, quanto la
meraviglia.
Nel primo racconto Il Bel Paese il passato rientra nella vita di un
uomo, che si ritrova nel suo paese natale, in un'osteria dove da bambino si era perso in
misteriosi pensieri e avventure. Un segreto triste e crudele riemerge e deve essere
"risolto" per sempre, con l'aiuto dei suoi amici di una volta. Una specie di
piccolo It in miniatura, certo, non fosse che il vero cuore del racconto è la
descrizione del paese e degli stati d'animo che lo percorrono, i suoni e i profumi della
provincia, del vivere di una volta, della visione del mondo che può avere un bambino.
Nel secondo pezzo, Teste n. 5, si sfiora senza troppa parsimonia il
mondo della fantascienza, utilizzando due prime persone diverse per descrivere da due
punti di vista il classico tema del "virus" letale. Anche qui c'è un difetto di
eccessiva pesantezza della prima parte e di una graniticità del monologo, che però, una
volta superato, regala un piacevole colpo di scena.
Nel terzo racconto, "Arca 2009", si ha l'unione di una gestione della
trama poco riuscita, in quanto sbilanciata, ma di una descrizione delle scene e del ritmo
decisamente efficace, che coinvolge fino alla fine, riuscendo a mantenere elevato il ritmo
di lettura per l'intero racconto.
Chiude la raccolta quella che invece, priva di elementi fantastici, è la storia cattiva
per eccellenza e forse il pezzo più bilanciato ed emotivo. Due compagni di scuola, un
rapporto di amore-odio, un nuovo videogioco, un pomeriggio insieme... stati d'animo
caricati come molle e tensione pronta a scattare, solo che non si sa, fino alla fine, in
quale direzione.
In conclusione quattro racconti che si leggono senza difficoltà e anche se per brevi
tratti paiono appesantirsi, alla fine si lasciano piacevolmente ricordare. Forse non ci
saranno grosse ricerche di innovazione, mirando a intrecci pirotecnici, ma l'intera
raccolta mostra un apprezzabile livello di onestà letteraria, e il lettore, non rischia
mai di sentirsi tradito. Risultato, quindi, che per un autore underground è
un merito e un valore, e che spinge il lettore ad aspettarsi il prossimo lavoro, che non
potrà essere che migliore.
Voto: 6,5
[Gelostellato]
Incipit dal racconto Il Bel Paese
L'insegna della locanda "Bel Paese" mi affascinava sempre da bambino,
sarà per i suoi caratteri ondeggianti intagliati nel legno o forse perché il mio babbo
ci andava tutte le sere per le sue gare di scala quaranta. E ora che, dopo ventitré anni
di lontananza da San Giovanni, ci sono davanti e seguo con il dito le lettere nel legno
(chiudendo un occhio per seguire con più nitidezza la punta del mio dito, come facevo da
ragazzino), sento un leggero formicolio allo stomaco. Per me era come una copertina, una
facciata che nascondeva il mondo dei grandi, degli uomini. Vino rosso, sigarette fumanti
appese alle labbra, musi rugosi e abbronzati di uomini temprati da ore di lavoro nei
campi, bestemmie in dialetto e tanfo di formaggio stagionato.
La prime volte che il babbo mi permise di accompagnarlo avevo sì e no otto anni ma dopo
quelle poche centinaia di metri che separavano la nostra casa dalla locanda mi obbligava a
restare fuori, seduto sulla panchina dove sono seduto ora, aspettando che l'orologio del
campanile toccasse le ventidue. Diceva che quando la lancetta avesse raggiunto quel numero
metallico in stile romano avrei dovuto sbirciare dalla finestra, l'unica nel lato del
"Bel Paese" rivolto sulla piazza, che guardava nella saletta da gioco
all'interno della locanda e aspettare che lui, seduto al tavolo in compagnia del suoi
amici, notasse la mia sagoma al di là dei vetri.