Mattatoio n. 5

di Kurt Vonnegut - pagine 196 - euro 7,00 - Feltrinelli

Forse siete tra quelli che di questo libro ne hanno solo sentito parlare. Se è così sapete più o meno tre cose: che Kurt Vonnegut ci ha lasciati lo scorso anno, che Mattatoio n. 5 è un libro che parla di guerra e che è uno di quei libri che bisogna aver letto.
Sono indubbiamente tutte cose vere, ma non spiegano la principale caratteristica del capolavoro di Vonnegut: è originale!
Quando si affronta uno di quei libri che tutti additano come "assolutamente da leggere", a volte, si è tentati di immaginare qualcosa di serio(so) o comunque di un certo peso specifico, ottenuto solitamente con uno sfoggio di stile e/o competenze che va a scapito della leggerezza.

Mattatoio n. 5, invece, non solo è un libro godibile e originale, ma a lettura ultimata si rivela di una leggerezza disarmante. Potrebbe anche mostrare caratteristiche che non piacciono, certo, ma alla fine non si può negare che abbia la capacità di arricchire, e non è cosa da poco.
Un libro di guerra, dunque, che per la precisione racconta del bombardamento di Dresda del 1945, evento che causò più morti che a Hiroshima e al quale l’autore scampò miracolosamente, rinchiuso nell’ex-mattatoio che dà il titolo all’opera.
Ma cos’è che fa questo lavoro così diverso dai classici “libri di guerra”?
Ci sono almeno due aspetti, due peculiarità di se stesso, alle quali Vonnegut non rinuncia e che lo rendono originale.
Innanzitutto, come si evince da buona parte della sua produzione, Kurt scrive di fantascienza, e decide di non abbandonare questo filone, regalandoci un protagonista che è in grado di viaggiare nel tempo e che in un suo futuro viene rapito dagli alieni.
In secondo luogo Vonnegut non abbandona lo stile ironico e disarmante che lo caratterizza, vicino e debitore alla tradizione di Mark Twain.
Questi due fattori, si fondono alla perfezione con l’impronta che viene data al protagonista del romanzo: Billy Pilgrim, un antieroe per eccellenza, che fa della sua disarmante tenerezza la parola chiave per comprendere e interpretare non solo l’intero romanzo, ma lo stesso conflitto mondiale.
Billy è un coacervo di dolcezza, bontà, spontaneità e straniamento che non può non entrare dentro il lettore. Billy (che non si chiama nemmeno Billy, a dirla tutta, ma che con quel nome, come gli hanno detto, si potrà ricordare meglio) è un soldato americano “inutile” (cappellano), che finisce disperso e catturato dai tedeschi e sopravvive al bombardamento. E mentre ci racconta della sua storia durante il 1945, lui ci racconta dei suoi viaggi nel nel tempo.
Così, mentre Kurt ci racconta di Billy e dei suoi compagni, che muoiono coi piedi in cancrena e si lavano col famoso sapone tedesco, e dei russi e degli inglesi, o meglio, degli uomini e dei soldati, ecco che Billy ci racconta si addormenta e finisce teneramente avanti di 30 anni, vivendo il matrimonio della figlia, o la morte della moglie o, fatto più rilevante, il rapimento da parte dei marziani. Si ritrova così chiuso in gabbia in una zoo di Tralfamadore, e impara come il tempo non sia una linea retta, ma essere vivo, nascere o morire siano frasi senza senso, esistendo ogni cosa nel medesimo istante.
E dentro il suo racconto, si finisce per innamorarsi della modella che finisce in gabbia con lui su Tralfamadore, piuttosto che dello scrittore di fantascienza di serie B Kilgore Trout, piuttosto che della sua moglie cicciona o di molti dei suoi compagni e nemici di guerra.
Il tutto in mezzo a una tenerezza infinita che è marchio di fabbrica di ogni comportamento (o non-comportamento) di Bill Pillgrim.
Vonnegut ha, quindi, un bellissimo modo di raccontare il suo messaggio pacifista e alla fine il risultato è straordinario: non si odia nessuno, ma si provano un'immensa pena e tenerezza per chiunque. E soprattutto, non si odia nemmeno la guerra; semplicemente, quella parola perde ogni significato.
Voto: 8
[Gelostellato]

Incipit
È tutto accaduto, più o meno. Le parti sulla guerra, in ogni caso, sono abbastanza vere. Un tale che conoscevo fu veramente ucciso, a Dresda, per aver preso una teiera che non era sua. Un altro tizio che conoscevo minacciò veramente di far uccidere i suoi nemici personali, dopo la guerra, da killer prezzolati. E così via. Ho cambiato tutti i nomi.
Io ci tornai veramente, a Dresda, con i soldi della Fondazione Guggenheim (Dio la benedica), nel 1967. Somigliava molto a Dayton, nell'Ohio, ma c'erano più aree deserte che a Dayton. Nel terreno dovevano esserci tonnellate di ossa umane.
Ci tornai con un vecchio commilitone, Bernard V. O'Hare, e là facemmo amicizia con un tassista che ci portò al mattatoio dove rinchiudevano, di notte, i prigionieri di guerra. Si chiamava Gerhard Mùller. Ci disse che per un po' era stato prigioniero degli americani. Gli domandammo com'era vivere sotto i comunisti, e lui disse che in principio era stato terribile, perché tutti dovevano lavorare tanto, e perché non c'erano case e mancava da mangiare e da vestirsi. Ma adesso le cose andavano molto meglio. Lui aveva un bell'appartamentino, e la figlia frequentava una buona scuola. Sua madre era rimasta incenerita nell'incendio di Dresda. Così va la vita.