Blackout

di Gianluca Morozzi - pagine 202 - euro 7,80 - Tea

Misteri del layout
Questo libro data la sua prima edizione nel 2004, per Ugo Guanda editore con una copertina bluette raffigurante una lampadina con gli occhi che ricordava vagamente un teschio. Adesso lo si trova nelle librerie con una elegante copertina nera, con tanto di logo trendy che ricorda il luogo dove il libro è ambientato: un ascensore.
Onestamente, la vecchia copertina, benchè si addicesse al titolo, si addiceva poco alla vicenda e, soprattutto, non si sarebbe mai fatta notare come quella attuale. Questa edizione, quindi, ha il pregio di essere esteticamente più accattivante, e se è la sostanza, che conta, anche la forma non è da trascurare.
La seconda di copertina, che descrive già i tre personaggi principali, promette una vicenda più che intrigante e il resto del libro non delude le aspettative.

La scrittura è asciutta, semplice, colorata. Il ritmo quasi sempre incalzante. Verosimiglianza dei fatti e padronanza della vicenda sono punti a favore che durano lungo tutto il romanzo. Unico neo è forse il modo come è stato trattato il finale, con un pathos lasciato volutamente cadere, ma senza che un approfondimento adeguato ne prenda il posto. Ma è una critica capziosa, perché il lavoro di Gianluca Morozzi scorre bene e non è mai pesante. L’”italianità” dei luoghi e dei personaggi è ben riprodotta, secondo descrizioni che a tratti mi hanno ricordato Ammaniti, e non è assolutamente un male.
Venendo alla vicenda, Blackout, è un libro che ha una struttura simile allo scoccare di una freccia con un arco.
All’inizio la mano cerca la freccia, nella faretra.
Morozzi descrive i personaggi, uno dopo l’altro, in tre istantanee che li presentano in tutti i loro chiaroscuri. Aldo Ferro: serial killer tanto efferato, quanto insospettabile; gestore di locali notturni, padre, marito infedele e spietato torturatore. Tomas: sedici anni, appassionato di musica con una canzoni di Springsteen addosso, in procinto di fuggire con Francesca. Claudia: ventiquattro anni, lesbica, la compagna in viaggio in Africa, mentre lei sbarca il lunario sculettando in un infimo bar di periferia.
Le dita sistemano la freccia sul filo.
I tre personaggi convergono in un palazzo di 20 piani, alla periferia di Bologna, il giorno di Ferragosto e prendono l’ascensore assieme. Tra l’undicesimo e il dodicesimo piano l’ascensore si blocca.
La corda comincia a tendersi.
Passano le ore e i tre si agitano “come vespe in un bicchiere rovesciato”. Manca l’aria ed è difficile respirare. Le bocche si asciugano per la sete. Tomas perde il treno, Claudia la pazienza e Ferro sta per perdere la testa...
La corda si tende all’inverosimile, vibra.
È l’ottava ora. La tensione è alle stelle. Ormai nessuno è più se stesso.
L’arco scocca la freccia.
È un attimo. Tutto esplode e si scatena, rapidissimo e imprevedibile.
La freccia sta per colpire il bersaglio.
Non c’è dubbio che la freccia stia per colpire, e il bersaglio è il lettore, che viene colpito, sì, ma non nel modo in cui si aspetta. All’ultimo la freccia scarta, e colpisce qualcos’altro. L’obiettivo dell’autore si rivela un altro.
Schegge volano dappertutto, e poi si posano lentamente a terra.
La tensione cala e arriva un finale che non è come le premesse lasciavano intuire. O meglio, sembra quasi prendere una direzione ormai prevista, che quasi indispettisce, ma poi vira all’ultimo momento e le schegge che lascia sono di tristezza, più che di orrore, di riflessione e malinconia, più che rabbia o moralismi.
E non resta che applaudire l’arciere.
Voto: 7,5
[Gelostellato]

Incipit
Ferro lava il coltello sotto il rubinetto fischiettando Don't Be Cruel, e il sangue scende nello scarico in rivoletti di un rosso scolorito e pallido.
Per Aldo Ferro la musica è iniziata con Elvis ed è finita con Elvis, non c'era niente prima di Elvis, non c'è stato niente dopo Elvis. Se Gesù è già sceso in Terra, dice sempre, dopo non ci si accontenta del primo profeta che passa per strada. Questa sparata fa sempre colpo, con le amiche di sua moglie.
Esce dal bagno giocherellando col coltello. La baracca è illuminata solo da una lampadina che pende nuda dal soffitto, le finestre sono oscurate dalle coperte inchiodate nel legno. Fuori, dietro gli alberi, il ciclo nero sbiadisce nel color asfalto che precede l'alba.
Il ragazzo legato alla sedia non si è ancora svegliato. Aldo Ferro gli gira intorno, con le sue scarpe di serpente, i basettoni, la camicia dagli intarsi country, gli aloni di sudore sotto le ascelle. Non che faccia caldo, nella baracca tra le montagne si respira, mica come in città, che l'afa di agosto fa boccheggiare anche alle cinque del mattino. No, è stato il lavoro di precisione a farlo sudare. Tutta la notte ci ha perso, su quel lavoro di precisione.
Il ragazzo muove appena la testa, mugola flebilmente. Aldo Ferro sorride. Canticchia la classica Heartbreak Hotel, accenna a un legnoso balletto col coltello in mano, un po’ come mr Pink prima di tagliare l’orecchio al poliziotto.