di Arthur Conan Doyle - pagine 302 - euro 6,20 - Fratelli Melita
Questo libro contiene due delle più famose indagini di Sherlock Holmes, il geniale detective creato dalla penna di Doyle. In una cupa Londra di fine Ottocento Holmes risolve brillantemente il misterioso delitto dello "Studio in rosso". "Il mastino dei Baskerville" è invece il terribile demone che da secoli perseguita un antica famiglia inglese, un mistero che in apparenza rientra nel "soprannaturale"; la nebbiosa e tetra brughiera fa da sfondo a questa nuova indagine di Sherlock Holmes.
Inoltre, in questa edizione dei fratelli Melita, potrete trovare altri due racconti di Doyle che non fanno parte della saga di Holmes: "La stanza sigillata" e "L'imbuto di pelle", due opere gotiche che gli appassionati di Poe non potranno che apprezzare. In conclusione vi invitiamo caldamente a leggere questo libro, un'opera dalle suggestive atmosfere e dalla narrazione coinvolgente. Voto: 8,5
Incipit
Nell'anno 1878 conseguii la laurea di dottore in medicina all'Università di Londra, e mi
recai a Netley per concludere il corso riservato ai chirurghi dell'esercito. Poichè avevo
completato i miei studi in quel luogo, a tempo debito venni assegnato in qualità di
assistente chirurgo al 5° Fucilieri del Northumberland. A quell'epoca il reggimento era
stazionato in India, e prima che io potessi raggiungerlo era esplosa la seconda guerra
afgana. All'approdo a Bombay, venni a sapere che il mio reparto era avanzato attraverso i
valichi e che si era già addentrato nella nazione del nemico. Proseguii, in ogni caso,
con molti altri ufficiali che si trovavano nella mia stessa situazione e riuscii a
raggiungere incolume Candahar, dove trovai il mio reggimento e assunsi subito i miei nuovi
incarichi.
Per molti la campagna fu fonte di onori e di promozioni, a me invece non avrebbe portato
altro che sfortuna e guai. Fui rimosso dalla mia brigata e assegnato ai Berkshire con i
quali combattei nella fatale battaglia di Maiwand. Là fui colpito alla spalla da una
pallottola dei Jezail che frantumò l'osso e sfiorò l'arteria succlavia. Sarei caduto
nelle mani dei feroci Ghazi se non fosse stato per la devozione e il coraggio mostrati da
Murray, il mio attendente, che mi buttò su un cavallo da carico e riuscì a portarmi in
salvo verso le linee britanniche.
Distrutto dal dolore e indebolito dalle prolungate difficoltà a cui mi ero sottoposto,
fui spostato, con un grande treno di sofferenti feriti all'ospedale di base a Peshawar.
Qui mi rimisi in forze ed erò già migliorato a tal punto da poter girare per i reparti,
e perfino sdraiarmi un pò sulla veranda, quando venni colpito dalla febbre enterica,
maledizione dei nostri possedimenti indiani. Per mesi disperarono per la mia vita e quando
finalmente tornai in me e fui convalescente, ero talmente debole e dimagrito, che un
gruppo di dottori decise che non sarebbe dovuto passare neppure un giorno prima del mio
ritorno in Inghilterra. Di conseguenza mi fecero partire con la nave per il trasporto
delle truppe, "Oronte", e un mese dopo arrivai al molo di Portsmouth con una
salute irrimediabilmente rovinata, ma con il benestare di un governo paternalistico di
trascorrere i nove mesi successivi a tentare di migliorarla.
In Inghilterra non avevo nè amici nè parenti, ed ero quindi libero come l'aria, o meglio
libero nella misura in cui può esserlo un uomo che ha un introito di unidici scellini e
qualche spicciolo. In queste circostanze naturalmente gravitai a Londra, quell'enorme
pozzo nero dentro il quale tutti i fannulloni e gli oziosi sono irresistibilmente
dissanguati.