The signal

Regia: David Bruckner, Jacob Gentry, Dan Bush
Cast: Anessa Ramsey, A.J.Bowen, Justin Welborn, Scott Poythress
Produzione: USA
Anno: 2007
Durata: 101 minuti

TRAMA

Un misterioso segnale che si diffonde dai televisori scatena una psicosi di massa.

RECENSIONE

L’Apocalisse prossima ventura sembra essere tornata di gran moda e, poco dopo i lemmings suicidi di M. Night Shyamalan, arriva questo “The signal”, prodotto indipendente già passato lo scorso anno al solito Sundance. Tutte le radio, i cellulari e i televisori della città di Terminus, nome che s’immagina non casuale, trasmettono un segnale ipnotico, che causa una psicosi di massa. Invece di porre fine alla propria vita, le persone influenzate dalla misteriosa interferenza preferiscono toglierla agli altri, preferibilmente in maniera cruenta e dolorosa. Mentre nel film di Shyamalan gli attori cercavano di conformare la propria espressività a quella della flora che ne tramava l’estinzione (forse un’imprevedibile astuzia mimetica), e gli unici momenti folgoranti erano dedicati ai compassati suicidi, in “The signal”, opera di pretese assai più basse e che sconta evidenti limiti di budget, a funzionare è proprio il terzetto di protagonisti di cui seguiamo le disavventure. Attraverso tre “trasmissioni” (Crazy in love, The jealousy monster e Escape from Terminus), firmate da tre registi diversi, “The signal” racconta la storia di Mya che, afflitta dal gelosissimo marito Lewis, ha una relazione clandestina con Ben. Alla vigilia del Capodanno, tornando a casa, nota che gli abitanti del suo condominio, a cominciare dal marito, iniziano a comportarsi stranamente e ad utilizzare in modo improprio mazze da baseball, cesoie da giardino, vanghe e quant’altro, e non ci mette molto a capire che c’è qualcosa che non va; decide così di lasciare la città, mentre i due uomini si mettono sulle sue tracce.
I riferimenti partono dal prototipo del genere, “La città verrà distrutta all’alba”, e arrivano fino a “28 giorni dopo”, mentre la coincidenza con “The cell” di Stephen King appare casuale, perché i due prodotti erano in gestazione contemporaneamente. Ma agli autori non interessa fare un cinema “politico” alla Romero, bensì raffigurare un’Apocalisse contemporanea, ovvero priva del versante escatologico, in bilico tra gore e humour nero che finisce per non essere né horror né commedia, creando un miscuglio dal sapore inusuale. L’inizio del film rientra perfettamente nei canoni del genere, e può vantare qualche scena indovinata, come quella dell’omicidio visto attraverso lo specchietto retrovisore, ma la parte centrale, diretta da Jacob Gentry, ha più della black comedy, con l’impagabile personaggio che, incurante dei cadaveri sparpagliati un po’ dappertutto, si presenta alla festa augurandosi di rimorchiare una ragazza per festeggiare degnamente il Capodanno. Eppure anche questo supposto alleggerimento si rivela ingannevole, dato che l’umorismo sterza bruscamente, e la tranche finale è considerevolmente più cupa, vantando persino qualche inquadratura rubacchiata da “Kairo” di Kurosawa Kiyoshi, mentre il finale rimane volutamente ambiguo.
Girato in digitale in due settimane, con un budget inferiore ai 5 milioni di dollari (bassissimo per gli standard americani), “The signal” è interpretato da attori semisconosciuti di Atlanta, che riescono a tener sempre desta l’attenzione anche durante le inevitabili cadute di tono. In particolare Anessa Ramsey, nella parte di Mya, e Justin Welborn, in quella di Ben, sono una spanna sopra agli altri, riuscendo nella non trascurabile impresa di far appassionare lo spettatore alla loro sorte. Una caratteristica elementare ma fondamentale per questo genere di film, e una cosa in cui “E venne il giorno” falliva completamente, sciorinando dialoghi che, tra tiramisù clandestini ed avvenenti farmaciste erano sì un’Apocalisse, ma della sceneggiatura.
Voto: 6
(Nicola Picchi)