Kaidan

Regia: Hideo Nakata
Cast: Onoe Kikunosuke, Hitomi Kuroki, Kumiko Aso, Takaaki Enoki, Reona Hirota, Tae Kimura
Produzione: Giappone
Anno: 2007
Durata: 115 minuti

TRAMA

Un samurai uccide un usuraio che insiste per riscuotere un vecchio debito, ma quest’ultimo, in punto di morte, lo maledice. L’assassino in seguito impazzisce, uccide la moglie e si suicida, lasciando un figlio piccolo. Venticinque anni dopo quel bambino è diventato uno squattrinato venditore di tabacco che, girovagando per Edo, si innamora di Toyoshiga, figlia dell’usuraio assassinato, che gestisce una scuola di canto. Ma le colpe dei padri ricadono sui figli, e la maledizione seguirà il suo corso.

RECENSIONE

Hideo Nakata per questa volta accantona le vertigini metropolitane del J-horror e sceglie di muoversi nei solchi della tradizione nipponica, che diedero frutti come il sontuoso “Kwaidan” (1964) di Masaki Kobayashi, a suo tempo meritatamente premiato a Cannes, o “Ghost story of Yotsuya” (1959) di Nobuo Nakagawa, regista che, per stessa ammissione di Nakata, lo ha molto influenzato. Nakata rispolvera un classico racconto di fantasmi dello scrittore del XIX secolo Sanyutei Encho (Kaidan Kasane ga Fuchi), più volte adattato per il cinema e per la tv e che aveva già ispirato proprio Nakagawa per “Ghosts of Kasane Swamp” (1957).
Il fatto è che un’operazione del genere, fatta oggi, dovrebbe almeno cercare di innovare quella stessa tradizione, o dal punto di vista della regia, come ha fatto Miike nel crudelissimo “Imprint”, o almeno dal punto di vista dell’immagine, vedi l’anacronistico delirio pop di “Sakuran”. In “Kaidan” ( termine arcaico che significa appunto storia di fantasmi) non abbiano nulla di tutto questo. Nakata omaggia il cinema degli anni ’50 e ’60 non solo ambientando il suo horror in epoca Edo, feudale e premoderna, ma anche scegliendo come interprete principale Onoe Kikunosuke, attore di kabuki pluripremiato sia come nimaime (attore specializzato in ruoli romantici) che come onnagata. Il problema è che, nonostante le buone intenzioni di partenza, il film si arena quasi subito: più mélo che horror, latita su entrambe i versanti, ed è spinto in avanti dalla sola forza d’inerzia, come se lo stesso autore avesse perso interesse nel suo lavoro. Dopo un prologo potenzialmente promettente e dal marcato sapore teatrale, stroncato da un’avvilente tavolozza cromatica di grigi smorti e impastati che nulla hanno dei gloriosi bagliori del bianco e nero, il regista adotta il ritmo torpido della produzione televisiva di medio livello, assecondato in negativo dalla piattissima fotografia di Hayashi Junichiro e dalle scenografie di Taneda Yosei, di anodino realismo. In tanto diffuso sopore valgono a ben poco le apparizioni annunciate del fantasma di Toyoshiga, l’abbondanza di sibilanti grovigli di serpenti in CGI (animale funebre per eccellenza, che incarna le anime dei morti) o il prefinale in stile “chambara eiga” in cui Shinkichi, posseduto dallo spirito del defunto genitore, stermina gli abitanti del villaggio come un riluttante Zatoichi. Nakata aggiorna la ghost story innervandola con un forte sottotesto edipico, palese nel dialogo tra i protagonisti prima della loro notte d’amore, che esploderà poi nella scena finale dove la visione conclusiva dell’imbozzolato protagonista regredito fisicamente allo stato infantile, ma più simile ad una Tomie in fase rigenerativa, suscita un imbarazzato sorriso più che inquietudine. Naturalmente non manca l’ossessione del regista, ma in realtà tutta nipponica, per l’acqua come tramite tra i due mondi nonchè elemento da cui le anime dei morti sono inevitabilmente attratte ed in cui si “sciolgono”, proiettandosi in una nuova reincarnazione, ma anche questo tratto ha il sapore un po’ amarognolo dell’autocitazione. E’ pur vero che le sottigliezze della recitazione di Onoe Kikunosuke, a prima vista assolutamente anonimo, possono sfuggire all’occhio occidentale, mentre appare più convincente Hitomi Kiroki (Dark water) nelle vesti di Toyoshiga, e che da questo punto di vista si può certo concedere a Nakata il beneficio del dubbio, ma quello che è scarsamente perdonabile è la mancanza di inventiva unita ad una certa stanchezza di fondo. Per consolarci, possiamo leggere in “Kaidan” la volontà di Nakata di riappropriarsi delle proprie radici culturali, dopo il periodo passato negli Stati Uniti a girare “Ring 2” e a progettare “Ring 3”. Se non è molto, è già qualcosa.
Voto: 5
(Nicola Picchi)