Cigarette burns

Titolo: Cigarette burns
Regia: John Carpenter
Cast: Norman Reedus, Udo Kier, Gary Hetherington, Chris Britton, Zara Taylor
Produzione: USA
Anno: 2005
Durata: 59 minuti

TRAMA

Kirby Sweetman, cinefilo nonché gestore di un cinema sull’orlo del fallimento, viene assunto da Mr. Ballinger, un ricchissimo collezionista di film, allo scopo di recuperare l’unica copia esistente di “Le fin absolue du monde”, film leggendario e “maledetto” di cui si sono perse le tracce dai tempi della prima al festival di Sitges. Sweetman cerca di rintracciare il regista Boris Backovic, ma scoprirà che il film provoca negli spettatori improvvisi scoppi di violenza e mutamenti fisici.

RECENSIONE

Con “Cigarette burns”, John Carpenter firma uno dei suoi lavori più convincenti dai tempi ormai lontani del lovecraftiano “Il seme della follia” (1995), a cui si ricollega da un punto di vista tematico. L’episodio è senz’altro uno dei più riusciti della prima serie dei “Masters of horror” (insieme ad “Homecoming” di Joe Dante) e soffre visibilmente dall’essere confinato nell’angusto minutaggio dell’episodio televisivo.
Laddove “Il seme della follia” raccontava del potere della scrittura, “Cigarette burns” è una potente metafora sulla forza delle immagini ed una riflessione sul cinema (“Il cinema è un’arma. Una pallottola sparata direttamente nel cervello”), sul suo rapporto con la realtà e sulla sua capacità di manipolazione. Le immagini in movimento comunicano con lo spettatore soprattutto a livello inconscio e, nella regressiva sala/utero che lo inghiotte, si allentano le difese dell’io rendendo possibile una sorta di transfert che, nel caso di “Le fin absolue du monde”, ha esiti fatali.
Carpenter ce ne lascia intravedere solo schegge e frammenti disturbanti (l’angelo mutilato, unghie spezzate contro un muro) visioni estreme del non visibile, fruibili solo al prezzo della riconoscibilità del male che è dentro noi stessi. I film si fanno anche con la propria carne ed il cinema è fatto anche di sangue e viscere, come scoprirà a proprie spese Mr. Ballinger nel surreale finale.
Per il tema affrontato ed anche per certe soluzioni, pur con tutte le differenze del caso, il film può essere accostato al bellissimo “Arrebato” (1979) di Ivàn Zulueta, che era però molto più radicale e al di fuori dai generi. Il regista adotta un ritmo lento ed avvolgente, sfruttando al meglio gli ovvi limiti del mezzo televisivo e senza rinunciare a qualche strizzatina d’occhio (Sweetman proietta “Profondo Rosso” nel suo cinema, la grafica d’epoca del manifesto di “Le fin absolue du monde”) riservata agli affezionati del genere. Tra l’altro il film offre una delle migliori interpretazioni di Udo Kier, di solito al limite dell’autoparodia, degli ultimi anni.
Mentre il titolo italiano si distingue come al solito per idiozia (“Incubo mortale”), quello originale allude alle bruciature che si formano sulla pellicola a fine rullo.
Voto: 7
(Nicola Picchi)