Dead meat

Regia: Conor McMahon
Cast: Marian Araujo, David Muyllaert, Eoin Whelan, David Ryan, Amy Redmond
Sceneggiatura: Conor McMahon
Produzione: Irlanda
Anno: 2004
Durata: 78 minuti

TRAMA

In seguito a un’epidemia causata da un ceppo particolarmente brutale di mucca pazza, i bovini di alcune cittadine irlandesi attaccano i loro allevatori e li trasformano in morti viventi. Helena, una turista spagnola, e Desmond, il becchino locale, incontratisi per caso, cercheranno di fuggire assieme dalla minaccia, armati di un badile, tacchi a spillo, e tanta speranza.

RECENSIONE

Cerca e cerca, ecco che il gioiellino lo si trova nuovamente in Europa. È in questa parte di mondo che l’horror sta a poco a poco risalendo sul trono che gli spetta, al di là delle megaproduzioni hollywoodiane - che, film dopo l’altro, non fanno altro colpire (e affondare) il nostro genere preferito. The descent, Alta tensione, Shaun of the dead, questi e altri i cavalieri che guidano la riscossa del terrore su celluloide. E benché Dead meat non possa essere raggruppato assieme ai suddetti titoli - nel suo sangue scorrono fieramente enormi porzioni di amatorialità - bisogna dare atto a Conor McMahon che, col suo omaggio a papà Romero, sa regalare un’ora e un quarto di brillanti soluzioni grand guignolesche e ingegnose trovate, da salutare col più ampio dei sorrisi.
Al suo primo film, infatti, il giovane regista fa centro. Non tanto per una trama che non fa alcun mistero della sua natura citazionista, ma per un notevole bagaglio di fresche novità, sfavillanti sviluppi registici, e un crescendo d’orrore e budella che sfocia in un epilogo amaro e doloroso.
E quindi si può sorvolare su un casting - ahimè - non particolarmente felice, che all’amorevole e avvenente Marian Araujo affianca un David Muyllaert, eroe comprimario fin troppo statico, con quel classico palo su per il sedere che impedisce la sbocciatura a tanti, troppi giovani attori. Ma anche gli altri mestieranti, vuoi per l’inesperienza, vuoi per l’effettiva mancanza di talento, offrono prove opache per gran parte del film, risollevandosi solo in qualche occasione (il sorprendente finale, vera e propria epopea dove la pellicola offre il meglio di sé, in qualsiasi reparto).
Così come si può lasciar correre su certi punti bui di una sceneggiatura semplice e scorrevole, quali un comportamento un po’ troppo freddo dei protagonisti una volta venuti a conoscenza della minaccia che dovranno affrontare, e di un certo uso degli zombi come tappabuchi per allungare un po’ il già non povero minutaggio.
E, sicuramente, si può chiudere un occhio anche su un make-up non particolarmente raggiante - ma che fa il suo dovere, vista l’abbondanza e la creatività di un reparto gore e visceristico, che schifa e incuriosisce.
Ci sono difetti, vero. Tanti. Ma in fondo, in un’opera prima, così sincera e onesta, così vera e sentita, è davvero irresistibile la tentazione di elogiarla per il suo carico di bellezza sanguinolenta e fregarsene dei buchi e delle cadute di tono. Perché Conor McMahon ha stoffa da vendere, e riesce a sopperire all’elementarità del suo script con una regia che sa dar vita ad autentici sprazzi di genio. È il caso del travolgente inizio mozzafiato e della relativa uccisione del primo morto vivente (azzardo ad affermare che sia la più originale del cinema zombesco tutto). O dell’assalto di una mucca resuscitata, che sprigiona puri brividi e tensione. Oppure ancora dell’apocalittico finale, con tanto di atmosfere sinistre e goticheggianti, create per mano di un castello sullo sfondo, l’aiuto della luna piena e di una semplice torcia artigianale, elementi che funzionano mille volte meglio di qualsivoglia mitragliatrice falciazombi.
Aggiungo poi una colonna sonora minimalista, ma che sa sfociare in inquietanti escursioni a suon di viole e violoncelli, fulgido esempio di come sia possibile realizzare un’atmosfera opprimente e tenebrosa con pochi mezzi (e poche note) a disposizione.
È sulla base di queste invenzioni che bisogna valutare il primordiale modo di intendere l’horror. È su persone piene di talento ma anche di grata devozione e umiltà come Conor McMahon che si deve puntare. È su film come Dead meat, che fa della spontaneità la sua carta migliore, che si è obbligati a scommettere. Perché è questo l’horror che vogliamo.
Voto: 7
(Simone Corà)