Mulholland drive

Regia: David Lynch
Cast: Dan Hedaya, Ann Miller, Naomi Watts, Laura Elena Harring, Justin Theroux
Sceneggiatura: David Lynch
Fotografia: Peter Beming
Produzione: USA
Anno: 2001
Durata: 145 minuti

TRAMA

È già arduo descrivere la trama di Mulholland Drive, impossibile descriverla in poghe righe. Si potrebbe dire che si tratta del rapporto tra due donne, un’affermata star hollywoodiana (Laura Elena Harring) che vediamo inizialmente perdere la memoria per un incidente avvenuto sulla Mulholland drive, e una ingenuotta e aspirante attrice appena giunta a Los Angels (Naomi Watts), a cui fanno sfondo diversi e complicati intrecci che ruotano intorno ad altri personaggi: un uomo ossessionato e perseguitato da un’immagine mostruosa e un regista minacciato da una sorta di mafia e costretto a scritturare per il suo nuovo film una perfetta sconosciuta dal dubbio talento. Non è un horror, non è thriller, è solo uno spaventoso incubo a occhi aperti.

RECENSIONE

Difficile, veramente difficile scrivere qualcosa su quest’opera di David Lynch, senza rischiare di cadere nel banale (riempendo la recensione di aggettivi quantomai abusati) oppure di perdersi negli intricatissimi risvolti narrativi (cercando magari di dare una, o peggio ancora, diverse interpretazioni a ciò che si è visto).
In questo percorso tortuoso è perfino difficile capire dove si trovi l’inizio e dove la fine. Si può passeggiare, come uno a caso dei tanti personaggi, lungo l’anello che contiene la storia (più o meno circolare), all’infinito.
Il cinema di Lynch è formato da episodi limpidissimi e talvolta spiazzanti come “The elephant man”, “Cuore selvaggio” e “Una storia vera” (il suo film più intimista) e da pellicole che avrebbero fatto la gioia di Sigmund Freud come “Velluto blu”, “Strade perdute” e, per l’appunto, “Mulholland drive”.
Vi è mai capitato di addormentarvi e sognare qualcuno che avete incontrato (anche solo di sfuggita) durante il giorno? Oppure di sognare persone che conoscete bene, ma che nel sogno hanno qualcosa di diverso dalla realtà? Di sognare ricordi che credevate aver rimosso e che poi riemergono come intatti oppure distorti? Di sognare vecchi amori infranti come fossero ancora tangibili? Questo è “Mulholland drive”: un film sulla schizofrenia (Diane assomiglia tanto a Fred Madison di “Strade perdute”), e il sogno è all’incirca un meccanismo schizofrenico, un gioco di scatole cinesi ingannatrici.
Penso sia davvero inutile cercare l’interpretazione intesa come spiegazione; sono state scritte davvero troppe parole al riguardo, lo stesso Lynch ha affermato che il film è nato da un suo sogno, e i sogni, lo sappiamo, si ancorano al nostro inconscio, diverso in ognuno di noi e, a mio modestissimo parere, difficilmente psicoanalizzabile seguendo schemi e formule precise.
Qualcuno dice che la prima parte del film rappresenti l’oniricità, mentre la seconda incarni la dura realtà. Qualcuno dice che è solo la triste storia di un amore non corrisposto. Altri sostengono che forse Diane non si sia mai nemmeno alzata da quel divano e abbia sognato tutto, ma sarebbe come sostenere che Noodles in “C’era una volta in America” non avesse mai lasciato la fumeria d’oppio. E chi siamo noi per pronunciare simili affermazioni? Io dico che, se così fosse, si cercherebbe di ridurre a schemi razionalisti una pellicola prettamente “surrealista”, e non penso che questo sia possibile (perlomeno io non ne ho le capacità).
L’unica cosa che posso asserire senza dubbi di sorta è che “Mulholland drive” provoca in me, ogni volta che lo rivedo, un elevato piacere estetico. Questo è lo scopo dell’arte, a prescindere da qualsiasi significato più o meno implicito possa contenere.
Voto: 9
(Davide Battaglia)